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"Vi consigliamo un libro" vuole essere una sorta di rubrica dove avremo la presunzione di consigliarvi le letture che più ci hanno colpito.

 

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Autore: David Hirst
Titolo: SENZA PACE
Editore: Nuovi Mondi Media Srl
Prezzo: € 21,50

SENZA PACE
di David Hirst

Un secolo di conflitti in Medio Oriente

"Una storia epica... una straordinaria e incalzante narrazione... un serio resoconto del costo del sionismo e una sobria analisi
del nuovo ruolo di Israele come conquistatore e occupante" - Christopher Hitchens

"Lascia ben pochi scheletri inviolati nell'armadio di Israele. Essendo documentatissimo, questo libro non sara' una piacevole lettura per molti di coloro che faranno tutto il possibile per screditarlo. Troveranno difficile sfidare l'ineludibile realta' degli interrogativi che pone e la sua caustica analisi" - Financial Times

"Un libro di prim'ordine, ottimamente scritto" - The Nation

"Una brillante mente analitica" - Robert Fisk

"Un classico" - Edward Said

Con "Senza Pace" il giornalista inglese David Hirst infrange tutti i miti sul conflitto israelo-palestinese.

Hirst, ex corrispondente del prestigioso quotidiano inglese The Guardian per il Medioriente, percorre gli avvenimenti occorsi dal 1880 ad oggi, per dimostrare come la violenza araba, sebbene spesso crudele e fanatica, sia una risposta alla continua provocazione di una reiterata aggressione.

Descritto dal New Statesman come uno dei "piu' grandi corrispondenti di lingua inglese dei nostri tempi", "l'impareggiabile analisi di Hirst gli e' valsa anatemi, espulsioni e rispetto in ogni paese della regione" (The Guardian). Bandito da 6 paesi arabi, rapito due volte, David Hirst e' il cronista perfetto di questo terribile e apparentemente irrisolvibile conflitto. La nuova edizione di questo "studio definitivo" (The Irish Times) attualizza la storia.

Tra i tanti temi sottoposti alla profonda analisi di Hirst vi sono: il processo di Pace di Oslo, l'occupazione israeliana della West Bank e di Gaza, l'effetto destabilizzante degli insediamenti ebraici nei territori, la seconda Intifada e l'aumento spaventoso di attacchi sucidi, il crescente potere della lobby di Israele - fondamentalisti ebraici e cristiani - negli Stati Uniti, l'aumento del dissenso interno a Israele e tra la popolazione israelo-americana, la partita tra Sharon e Arafat e lo spettro della catastrofe nucleare che minaccia di distruggere l'intera regione.

"David Hirst, da sempre partecipe alla tragedia palestinese, e' un giornalista di primissimo livello che ha dedicato la sua esistenza a vivere all'interno del mondo arabo e a scrivere di esso" - Edward Said

"Senza Pace. Un secolo di conflitti in Medio Oriente" di David Hirst - Dal 10 ottobre in libreria


Guerra ai nemici di Israele - Di David Hirst da "Senza Pace"
L’America di George Bush figlio e dei suoi tirapiedi neoconservatori dopo l’11 settembre si è quasi schierata con Sharon.“Significa”, ha detto Mortimer Zuckerman, a capo della Conferenza dei Presidenti delle Principali Organizzazioni Ebree Americane, “che se attacchi l’America ottieni qualche cosa”. E nell’estate del 2002 Bush aveva già fissato la sua nuova linea di condotta: “cambio di regime” e riforma dei mondi arabo e musulmano e, laddove necessario, l’intervento militare americano per conseguire tali scopi.

L’ASSE DEL MALE: L’AMERICA ADOTTA COME PROPRI I NEMICI D’ISRAELE

Lungi dal preoccuparsi per la dubbia compagnia che seguita a frequentare, l’America di George Bush figlio e dei suoi tirapiedi neoconservatori intrattiene con essa rapporti più stretti che mai.
Dopo l’11 settembre si è quasi schierata con Sharon, “l’uomo di pace di Bush”, ha quasi assimilato la sua guerra con Arafat e i palestinesi alla propria contro “l’asse del male”, al-Qaeda e il terrorismo internazionale. C’è stato, è vero, un periodo di incertezza e tentennamento, in cui sembrava che Bush avesse intuito che le politiche mediorientali dell’America, e non solo i suoi valori, avevano qualcosa a che fare con le avversità che l’avevano colpita. Fu, probabilmente, una genuflessione davanti a Colin Powell e a quella parte più equilibrata e ragionevole, ma più debole, della sua Amministrazione, che il suo segretario di stato sembrava rappresentare. Iniziò con la una dichiarazione del presidente circa la necessità di uno stato palestinese, una dichiarazione a lungo attesa e tutt’altro che rivoluzionaria, ma sufficiente perché la Lobby e la sua claque al Congresso la denunciassero come un segno di “arrendevolezza”. “Significa”, ha detto Mortimer Zuckerman, a capo della Conferenza dei Presidenti delle Principali Organizzazioni Ebree Americane, “che se attacchi l’America ottieni qualche cosa”. Sharon stesso si spinse oltre: per lui quella posizione sapeva di Cecoslovacchia, di Monaco nel 1938. Ma il tentennamento non durò a lungo. Nell’estate del 2002 Bush aveva già fissato la sua nuova linea di condotta: “cambio di regime” e riforma dei mondi arabo e musulmano e, laddove necessario, l’intervento militare americano per conseguire tali scopi.

Fu così che l’America che all’inizio del XX secolo aveva insistito, provocando la costernazione delle potenze coloniali europee, sulla necessità di tener conto dei desideri liberamente e democraticamente espressi dai popoli arabi, ora intendeva imporre ad essi la “democrazia” con le armi. Era il nuovo imperialismo “transatlantico” del XXI secolo sotto un altro nome. Si cominciò con l’Iraq: dopo l’Afghanistan, fu lì che ebbe luogo la promessa “fase due” della “guerra al terrorismo”, fu lì che s’ingaggiò la battaglia decisiva tra il bene e il male. Fino a quel momento, si era pensato che la “connessione” tra le due problematiche rendesse molto difficile, se non impossibile, che gli Stati Uniti potessero muovere guerra in una delle due grandi zone interessate dalla crisi mediorientale, l’Iraq e il Golfo, prima di aver almeno in parte risolto i problemi più annosi ed esplosivi nell’altra area, la Palestina. Conquistare e occupare l’Iraq, permettendo al contempo a Israele di continuare a depredare la Palestina, equivaleva a una nuova, terribile, espansione della politica dei due pesi e delle due misure; fu vista come un’aggressione contro l’intero mondo arabo. Ma la risposta dei neoconservatori era quanto mai semplice; si limitarono a capovolgere la questione. La strada per muovere guerra all’Iraq non passava più per la pace in Palestina; era piuttosto la pace in Palestina o, per essere più precisi, la totale sottomissione dei palestinesi, che passava per la guerra a Baghdad. La nuova teoria fu esposta esaurientemente, in tutta la sua megalomania, da Norman Podhoretz, il veterano dei luminari intellettuali neoconservatori, nel numero di settembre 2002 della sua rivista Commentary. I cambi di regime, proclamava, erano “la conditio sine qua non in tutta la regione”. E quelli che “meritano ampiamente di essere rovesciati e sostituiti non si limitavano” ai due membri mediorientali ufficialmente designati dell’asse del male di Bush. “Quanto meno, l’asse va allargato alla Siria, al Libano e alla Libia, nonché ad ‘amici’ dell’America come la famiglia reale saudita e Husni Mubarak d’Egitto, oltre all’Autorità Palestinese, sia essa guidata da Arafat o da uno dei suoi scagnozzi”.

Un’epurazione così estesa, diceva, avrebbe potuto “spianare la strada a quella riforma internazionale e modernizzazione dell’Islam attese da tempo”. D’altro canto, poteva anche non riuscirci. “È innegabile che l’alternativa a questi regimi potrebbe facilmente dimostrarsi peggiore, anche (o specialmente) se assume il potere in seguito a elezioni democratiche” perché “un gran numero di persone nel mondo musulmano simpatizza con Osama bin Laden e voterebbe per candidati islamici radicali della sua specie se gliene venisse data la possibilità”. “Ciò nonostante”, proseguiva impavido, “c’è una politica che può scongiurare questa evenienza, purché gli Stati Uniti siano disposti a combattere la Quarta Guerra Mondiale – la guerra contro l’Islam militante – per vincerla e purché poi abbiamo il fegato di imporre agli sconfitti una nuova cultura politica”.

Questa, ovviamente, era un’elaborazione compiuta e definitiva di quel progetto, A Clean Break (Un taglio netto), che alcuni spiriti affini a Podhoretz, avevano presentato al premier israeliano Binyamin Netanyahu già nel 1996. Era l’apoteosi della “alleanza strategica”, un grandioso disegno americano almeno quanto israeliano, e forse ancora di più. Con il pretesto di privare l’Iraq delle sue armi di distruzione di massa, gli Stati Uniti cercano di “ridisegnare” l’intero Medio Oriente, facendo di questo paese fondamentale e riccamente dotato il fulcro di un nuovo ordine geopolitico filo-americano. Assistendo a una manifestazione così schiacciante della volontà e potenza americane, altri regimi, e in particolare la Siria che sostiene gli hezbollah, dovranno o piegarsi ai fini americani o subire una sorte analoga.

Con l’aggressione dell’Iraq, gli Stati Uniti non adottavano semplicemente i metodi consolidati di Israele – dell’iniziativa, dell’offesa e della prevenzione – ma ne adottavano anche gli avversari come propri. L’Iraq era sempre stato tra i primi della lista; insieme all’Iran era uno dei cosiddetti nemici “lontani”, che ormai apparivano più minacciosi di quelli “vicini”, i palestinesi e gli stati arabi confinanti, soprattutto da quando avevano iniziato a sviluppare armi di distruzione di massa. Israele aveva sempre propagandato l’implacabile determinazione a preservare il proprio monopolio in quel campo. Aveva nutrito grandi speranze che George Bush padre distruggesse Saddam Hussein e il suo regime con la Tempesta nel Deserto. Quelle speranze si erano infrante, ma la prospettiva che George Bush figlio completasse il lavoro che il padre aveva lasciato incompiuto produsse in Israele un consenso raro. Non fu solo Sharon, il superfalco del Likud, a incitarlo a procedere senza indugi, ma anche Shimon Peres, il suo ministro degli esteri laburista, ritenuto un moderato. Autore di tanti inganni e stratagemmi spudorati a spese degli Usa nei primi anni della nuclearizzazione israeliana, questi ora ammoniva solennemente una platea di Washington che posporre un attacco all’Iraq avrebbe significato “assumersi forse lo stesso rischio che l’Europa si assunse nel 1939 di fronte all’emergenza rappresentata da Hitler”.

Sharon era così eccitato per questo nuovo assetto mediorientale in formazione, che disse al Times di Londra che “il giorno dopo” l’Iraq, Stati Uniti e Gran Bretagna si sarebbero dovuti occupare dell’altro nemico “lontano”. Israele, infatti, aveva sempre considerato l’Iran degli ayatollah come la minaccia maggiore tra le due, a causa del suo peso intrinseco, della sua leadership fondamentalista, teologicamente anti-sionista, del suo programma di armamenti nucleari più serio, diversificato e, si supponeva, assistito dalla Russia, e della sua affinità ideologica con organizzazioni islamiche come Hamas o gli hezbollah, che forse sosteneva direttamente. Nulla, in effetti, illustrava meglio dell’Iran l’ascendente che Israele e gli “amici d’Israele” in America avevano sulle decisioni politiche americane. Molto semplicemente, diceva l’esperto di questioni iraniane James Bill, gli “Stati Uniti osservano l’Iran attraverso occhiali fabbricati in Israele” . A ben guardare, Israele non era soltanto l’unico beneficiario, bensì il sostenitore di quelle sanzioni commerciali, molto dannose per gli interessi economici americani, che il Presidente Clinton aveva imposto all’Iran nel 1995 e che Bush, superato in astuzia dalla Lobby, aveva rinnovato nel 2001, sia pure con riluttanza. L’effetto deformante di quell’influenza è tale che, secondo il Washington Post, Israele, con l’aiuto del Congresso, fu determinante a far sì che la CIA, a spese della propria obiettività professionale, adottasse una valutazione allarmistica della minaccia missilistica rappresentata per gli Stati Uniti da paesi “canaglia” come l’Iran, una valutazione che contraddiceva totalmente la sua precedente ortodossia.

Convincere gli Stati Uniti della gravità della minaccia iraniana era da tempo una delle prime preoccupazioni israeliane. All’inizio degli anni Novanta, il deputato laburista ed ex ministro Moshe Sneh dichiarò a un convegno presso lo Yaffe Center for Stategic Studies che Israele “non poteva assolutamente accettare l’idea di una bomba atomica in mano agli iraniani”. Un simile evento poteva e doveva essere evitato collettivamente, disse, “perché l’Iran minaccia gli interessi di tutti gli stati ragionevoli in Medio Oriente”. Tuttavia, “se gli stati occidentali non fanno il loro dovere, Israele si vedrà costretto ad agire da solo e assolverà al suo compito con ogni mezzo [vale a dire, anche nucleare]”. L’accenno di ricatto anti-americano contenuto in quell’osservazione non era niente di eccezionale; era sempre stato un motivo conduttore dei discorsi israeliani sull’argomento.

Un altro esperto, Daniel Lesham, incitava Israele a enfatizzare il terrorismo iraniano e a “spiegare al mondo” l’urgente necessità di provocare alla guerra quel paese. Altri ancora sostenevano che gli Stati Uniti avrebbero dovuto demonizzare e isolare l’Iran assediandone le coste e “stazionando navi da guerra, soprattutto sottomarini nucleari, minacciosamente vicini” . La resa dei conti con l’Iraq non ha fatto altro che incoraggiare questo modo di pensare, tanto più visto che, a quanto riferiscono alcuni, l’impianto nucleare costruito dai russi a Bushire, che iraniani e russi sostengono abbia scopi pacifici, mentre israeliani e americani ritengono sia per scopi militari, entrerà in funzione a breve. “Nel giro di due anni”, ha detto John Pike, direttore di Globalsecurity.org, “o gli Usa o Israele attaccheranno [i siti nucleari] dell’Iran o accetteranno il fatto che l’Iran sia uno stato nuclearizzato”.

PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI: SALVATE ISRAELE DALLA SUA FOLLIA NUCLEARE

Dove porterà questo progetto neoconservatore, israelo-americano per il Medio Oriente è impossibile prevederlo. Tutto ciò che si può dire per certo è che potrebbe facilmente dimostrarsi tanto disastroso nelle sue conseguenze per la regione, l’America e lo stesso Israele, quant’è assurdamente fazioso nelle motivazioni, fantasticamente ambizioso nella concezione e terribilmente rischioso in pratica. Se anche, per cominciare, ottenesse quello che, a giudizio di chi scrive, sarebbe un successo apparente e di breve durata, non metterebbe fine alla violenza in Medio Oriente. Anzi, è molto più probabile che, nel medio o lungo periodo, finisca per peggiorarla notevolmente. Per mettere davvero fine alla violenza, se ne devono strappare le radici e bonificare il terreno nocivo che la nutre.

È tardi, ma forse non troppo tardi, perché ciò possa accadere. Il compromesso storico – e storicamente generoso – che nel lontano 1988 Yasser Arafat aveva offerto per la spartizione della Palestina tra la sua popolazione indigena e i sionisti che ne avevano scacciata la maggior parte, ufficialmente è ancora valido. Ormai è assolutamente ovvio che senza una persuasione esterna Israele non l’accetterà mai e che quella persuasione può venire soltanto dall’ultimo vero amico di Israele nel mondo, gli Stati Uniti; che, affinché la persuasione funzioni, ci dev’essere in Israele una “riforma” o un “cambio di regime” tanto profondo quanto quello necessario dall’altra parte; e, infine, che è l’unico modo, in ultimo, per salvare Israele da se stesso. È una cosa che alcuni israeliani capiscono chiaramente e che si sforzano di far capire anche all’America e, forse più opportunamente, agli “amici di Israele” in America. “Da decenni”, si lamenta l’attivista Gila Svirsky, “noi del movimento pacifista israeliano lottiamo perché gli israeliani raggiungano un compromesso sulla questione che alimenta il conflitto con i palestinesi. E adesso il nostro lavoro per la pace è vanificato due volte: la prima da un premier convinto che la brutalità indurrà i palestinesi ad arrendersi e la seconda da un presidente americano che lo sostiene in questo. Bush è diventato una parte notevole del problema”. O, per dirla con le parole di Gideon Samet, un rubricista di Haaretz, “anziché calmare le acque e bilanciare le pressioni su Arafat con richieste a Sharon… lo zio Sam sta scrivendo un copione per un Occidente terrificante di buoni contro i cattivi… fino alla morte”.

Data la faziosità, effettivamente, è altamente improbabile che qualcosa cambi nell’immediato futuro. E non sarebbe, comunque, facile anche nelle circostanze più favorevoli. Soltanto il più risoluto dei presidenti potrebbe farcela. Conquistare la Casa Bianca alla propria causa è sempre stato uno degli obiettivi supremi del sionismo, un obiettivo in larga misura brillantemente conseguito negli anni. L’ultima volta che l’inquilino di Pennsylvania Avenue n. 1600 ha assunto una posizione ferma contro Israele fu quando il Presidente Eisenhower gli impose il ritiro incondizionato dal Sinai che aveva invaso, con un atto deliberato di aggressione non provocata, nella guerra di Suez del 1956. In realtà – dice Stephen Green nel suo libro Taking Sides (Schierarsi) – “si può affermare che Eisenhower fu l’ultimo presidente americano a dettare veramente la politica mediorientale americana” anziché “Israele e gli amici di Israele in America” . Nel quasi mezzo secolo trascorso da allora, è stato forse George Bush padre quello che si è maggiormente opposto a Israele in una disputa sulla garanzia di un prestito di 10 miliardi di dollari nel 1991; alcuni pensano che gli sia costata la rielezione per un secondo mandato.

Ma se non dovesse cambiare nulla in un futuro ragionevolmente prossimo, verrà il momento in cui non sarà più possibile che accada. La leadership palestinese potrebbe ritirare la sua offerta, avendo concluso, come molta della sua gente ha già fatto, che per quanto concilianti diventino, per quanto facciano altre concessioni, non sarà mai abbastanza per un avversario che sembra volere tutto. Gli esponenti del “fronte del rifiuto” di Hamas e/o quelli, tanto laici quanto religiosi, che la pensano come loro, potrebbero assumere il comando. L’intero, più vasto processo di pace arabo-israeliano avviato da Anwar Sadat, ritenuto ormai irreversibile, potrebbe dimostrarsi reversibile, dopo tutto; Camp David e il Wadi Araba (il trattato tra Israele e la Giordania del 1994) potrebbero crollare. Nel qual caso potrebbe arrivare, e quasi certamente arriverà, il momento in cui il costo, per gli Stati Uniti, di continuare a sostenere il loro protetto infinitamente insistente in un conflitto interminabile contro una cerchia sempre più vasta di nemici sarà maggiore della loro volontà di sostenerlo e delle risorse necessarie a tale scopo. E molto probabilmente sarà un momento in cui Israele stesso si troverà in una situazione di pericolo grave e forse persino fatale per la sua esistenza. E se così fosse, l’America probabilmente scoprirebbe anche qualcos’altro: che l’amico e alleato che ha soccorso in tutti questi anni non solo è uno stato coloniale, non solo è estremista per temperamento, razzista in pratica e sempre più fondamentalista nell’ideologia che lo spinge, ma è anche assolutamente capace di diventare uno stato “irrazionale” a spese dell’America quanto proprie.

Essere una “risorsa strategica”, infatti, significa anche avere la possibilità di diventare, di proposito e deliberatamente, uno “svantaggio strategico”. È una cosa che i leader israeliani ricordano di tanto in tanto al loro benefattore americano; era, per esempio, il significato reale – o, come ha detto il rubricista israeliano Haim Baram, “il ricatto vero e proprio” – dietro il rabbioso riferimento alla Cecoslovacchia di Sharon e al suo monito che “da oggi in poi, possiamo contare solo su noi stessi”. In effetti, la minaccia di una violenza cieca e irrazionale in reazione a pressioni politiche è stata la risposta istintiva dello stato ebraico sin dai suoi esordi. È stata anche autorevolmente documentata, negli anni Cinquanta, da una colomba, il premier Moshe Sharett, il quale scriveva del proprio ministro della difesa Pinhas Lavon che questi “predicava costantemente atti di follia” o “la furia cieca” nel caso in cui Israele fosse stato offeso.

Nel suo libro The Fateful Triangle (Il triangolo fatale), Noam Chomsky sostiene che il bersaglio reale della bomba atomica israeliana sono gli Stati Uniti.

Che Israele cercasse effettivamente di premere in questo modo sugli Stati Uniti lo presumevano anche i francesi quando, in una collaborazione tenuta rigorosamente nascosta agli americani, fornirono la prima indispensabile assistenza al progetto israeliano di divenire una potenza nucleare.

“Pensavamo”, disse Francis Perrin, Alto Commissario dell’Agenzia per l’Energia Atomica francese all’epoca, “che la bomba israeliana fosse diretta contro gli americani, non per essere lanciata contro l’America, ma per dir loro ‘se non volete aiutarci in una situazione critica, vi costringeremo a farlo, altrimenti ricorreremo alla nostra bomba atomica’”.

Quando, nella guerra del 1973, Israele sguainò la sua spada nucleare, non fu per spaventare gli arabi, bensì per obbligare gli Stati Uniti a intervenire con un massiccio rifornimento di emergenza di armi convenzionali per non rischiare un colpo catastrofico, inflitto da Israele, ai suoi più vasti interessi nella regione.

Senza una pace “giusta, globale e duratura” – vanamente cercata dalla diplomazia mediorientale per oltre mezzo secolo – che può realizzarsi soltanto grazie all’America, Israele rimarrà almeno quanto l’Iran, ma anche più a lungo, un candidato al ruolo di stato che può fare un uso sconsiderato dalle propria potenza nucleare.

L’Iran non potrà mai essere minacciato nella sua stessa esistenza, Israele invece sì. In effetti, nonostante la sua enorme superiorità militare sui palestinesi e su ogni possibile alleanza di stati arabi, una simile minaccia potrebbe persino scaturire dall’attuale Intifada. Questa, almeno, è l’opinione pessimistica di Martin van Creveld, noto docente di storia militare all’Università ebraica di Gerusalemme. Se dovesse protrarsi a lungo, ha detto, “il governo israeliano [potrebbe] perdere il controllo del popolo… In campagne come questa le forze anti-terrorismo perdono perché non riescono a vincere e i ribelli vincono perché riescono a non perdere. Considero inevitabile la disfatta totale di Israele. Ciò significherebbe il crollo dello stato e della società israeliani. Distruggeremmo noi stessi”. E in questa situazione, proseguiva, sempre più israeliani finivano per considerare il “trasferimento” dei palestinesi come l’unica salvezza; il ricorso a esso stava divenendo sempre “più probabile… ogni giorno che passa”. Sharon “vuole un’escalation del conflitto perché sa di non poter riuscire in nessun altro modo”. Ma il mondo permetterebbe una simile pulizia etnica?

“Dipende da chi la fa e quanto rapidamente. Possediamo varie centinaia di testate e razzi nucleari, che possiamo lanciare in ogni direzione, forse persino su Roma. La maggior parte delle capitali europee sono possibili bersagli delle nostre forze aeree… Permettetemi di citare il generale Moshe Dayan: ‘Israele dev’essere come un cane rabbioso, troppo pericoloso per darsi pensiero’. Ritengo che a questo punto non ci sia più speranza. Dovremo cercare di evitare che si arrivi a quel punto, se è ancora possibile. Le nostre forze armate, però, non sono al trentesimo posto nel mondo, bensì al secondo o al terzo. Abbiamo la capacità di trascinare il mondo intero nella nostra rovina. E vi assicuro che accadrà, prima che Israele affondi”.

Nella sua prima edizione, Senza Pace si concludeva con una citazione dal Jerusalem Post che metteva in guardia dal secondo “Olocausto” che un giorno avrebbe potuto coinvolgere i nemici d’Israele quanto Israele stesso. Chiaramente la citazione è altrettanto pertinente oggi, venticinque anni dopo. E “l’inno di speranza”, i cui “primi accordi” – a detta di quel recensore – Anwar Sadat aveva appena fatto risuonare con il suo pellegrinaggio a Gerusalemme, rimane un inno di speranza delusa. E continuerà a esserlo fintantoché gli Stati Uniti non si sveglieranno del tutto da quella ottusa infatuazione che è sempre stata in contrasto con la maggior parte dei “valori” che presumono di incarnare, fin da quando George Washington ammoniva contro la “parzialità eccessiva” nei confronti di “un’unica nazione straniera”, contro “l’immaginario interesse comune” che ne scaturiva e “l’opportunità” che offriva ai “cittadini di tradire o sacrificare gli interessi del proprio paese nell’illusione di perseguire con lodevole zelo il bene comune”.

SENZA PACE
ed. Nuovi Mondi Media. Traduzione di Giuliana Lupi.
dal 15 ottobre in tutte le librerie
già acquistabile su Nuovi Mondi Shop

 


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