"Noi, i rapitori e la grande paura ma nessuno ci ha chiamate spie" *

di GIUSEPPE D'AVANZO


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ROMA - "Quel pomeriggio del 7 settembre entra Simona nella mia stanza. E mi dice, mi grida: "Sono arrivati loro..." Ha la faccia spaventata...".
Simona Pari guarda fisso davanti a sé, mentre ricorda il momento del suo sequestro.
"Sono arrivati loro..., dice Simona".

Loro chi? Perché dice loro?
"Non lo so perché dice "loro". Lo dice come chi vuole indicare qualcosa di cattivo. Dietro Simona c'era un uomo con un grosso fucile, che ci ha spinto nel corridoio e ci ha fatto accucciare sui talloni. Io ero l'ultima a essere stata presa. Gli altri erano già tutti accucciati nel corridoio. Ci chiedono i nomi".

Quanti erano i sequestratori?
"Non lo ricordo. Io ricordo soltanto quello che è entrato nella mia stanza alle spalle di Simona".

Dicono che fossero 15 o 20. Dicono che erano vestiti con divise militari e il capo fosse in abiti civili. E' vero?
"Non lo so. Non lo ricordo. Non credo di aver visto tanta gente... Ricordo soltanto che ci chiedono il nome e ci portano via. Io e Simona veniamo spinte nella stessa auto. Ci dicono di abbassare la testa, di piegarci tra il sedile e il planale dell'auto. Non riuscivo a rendermi conto di essere stata rapita. Avevo paura. Sentivo la mia impotenza. Mi sentivo fragile come una pagliuzza spinta dal vento. Mi sono aggrappata alla sola cosa che è parsa potermi dare un po' di coraggio. Era Simona accanto a me".

Al Kubaissi, del Consiglio degli Ulema, ha riferito che lei e Simona Torretta eravate molto preoccupate prima di quel 7 settembre. E' vero?
"E' vero che andammo da Al Kubaissi. Pensavamo di incontrarlo da molto tempo, perché volevamo far conoscere agli Ulema i nostri progetti e il nostro lavoro. Non ricordo - e sono portata ad escluderlo - che ci siamo mostrate preoccupate. Certo, abbiamo parlato della situazione caotica del Paese, ma non della nostra paura, che non avevamo".

Quindi vi spingono nella macchina. E che cosa succede?
"Stiamo in macchina per un tempo che non riesco a quantificare. Non hai punti di riferimento. Sei con la testa a guardare il pavimento della macchina. Con il cuore che va su e giù. Non pensi al tempo. Comunque, arriviamo in una casa che non so dire. Lì ci tratteniamo il tempo necessario affinché ci bendino. Risaliamo sulla macchina e ci portano in quella che per 21 giorni è stata la nostra prigione".

Come era questa prigione?
"Una stanza. C'erano dei materassi a terra, un divano, una finestra piccola e alta che ci impediva di guardare fuori. Accanto, aveva un bagno che, dopo i primi giorni, abbiamo potuto utilizzare senza chiedere il permesso. Ci hanno lasciate bendate per un periodo molto lungo. Avevo paura".

Vi hanno, per così dire, interrogato?
"Sì. I primi colloqui sono stati molto aspri. Ci chiedevano chi eravamo, perché eravamo in Iraq, che cosa stavamo facendo. Era soprattutto Simona (Torretta ndr.) a rispondere. In inglese, gli spiegava i nostri progetti, da quanto tempo la nostra organizzazione era in Iraq. Spiegava che non avevamo mai lavorato con il governo dell'occupazione. Diceva che nessuno dei nostri progetti è stato mai finanziato da alcun governo della coalizione. Parlava delle scuole che stavamo ricostruendo, dei nostri stretti contatti con la comunità irachena, del lavoro con le donne e bambini di Bagdad".

Vi hanno mai contestato di essere delle spie?
"No".

Il commissario straordinario della Croce rossa sostiene da qualche giorno che i vostri nomi e quello di Enzo Baldoni erano in un elenco di spie delle forze anglo-americane trafugato dai saddamiti. Come è possibile che non vi hanno mai contestato di essere delle spie?
"Io non so perché Scelli dice questo. So che non ci hanno mai accusato di essere delle spie".

Quanti interrogatori, per così dire, siete state costrette ad affrontare?
"Del primo ho detto. E ricordo che è stato il più duro. Nei giorni successivi, si è creato un clima che, pur severo, permetteva un maggiore dialogo. E allora, io e Simona siamo riuscite, forse meglio, a spiegare quale era il senso del nostro lavoro. A trasmettere lo spirito di solidarietà con il popolo iracheno, che lo ha sempre animato. Credo che siamo riuscite in quelle conversazioni - come devo definirle? - a renderli consapevoli che ci rendevamo conto delle dolorose violazioni che il popolo iracheno era costretto a subire. Abbiamo spiegato che la questione dei diritti umani, dovunque e da chiunque vengano calpestati, è la questione che più ci interessa affrontare. Ci parlavano delle violazioni subite dalle donne nel carcere di Abu Ghraib. E noi rispondevamo che sempre, contro quelle violazioni, avevamo lavorato. Sempre per i diritti umani calpestati".

Lei, con Simona, ha detto nei giorni scorsi che i sequestratori hanno fatto le "verifiche" su quel che dicevate.
"Io non so se hanno fatto delle verifiche. So che la situazione, con il passare dei giorni, è diventata più fluida. Riuscivamo meglio - mi sembra - a convincerli della sincerità delle nostre intenzioni e dei nostri progetti. Dico che la situazione diventava più fluida perché anche le nostre condizioni di vita in quella stanza sono migliorate, dopo qualche giorno. Ci hanno tolto le bende. Ci hanno dato quei vestiti con cui poi siamo tornate in Italia, e biancheria e sapone e dentifricio e buon cibo. Continuamente ci chiedevano se avevamo bisogno di qualcosa. La colazione era addirittura ricca, con crema, sciroppo di dattero, pane appena sfornato e tè. Mai ci è mancato il riso e la carne. E, nonostante tutto questo, sempre ci chiedevano se avevamo bisogno di qualcosa".

Questa "fluidità" della vostra condizione attenuava anche la paura?
"No. Avevo sempre paura. Era una paura che a tratti mi paralizzava. Me ne stavo in silenzio, allora, e afferravo un pensiero felice. Che so, degli amici che non vedevo da molto tempo. Un luogo che mi mancava e dove ero stata sempre serena. Capisce che voglio dire? Pensavo a che cosa volevo fare dopo quello che mi stava capitando. Riuscivo così a tenere la paura sotto controllo".

Riusciva a dormire?
"Sono riuscita a dormire anche la prima notte. Sono crollata di schianto, schiacciata dallo stress. E nei giorni successivi, priva della condizione del tempo che passava, incerta e impaurita da quello che, da un momento all'altro, poteva succedermi ho vissuto come in uno stato di sonnacchiosa e confusa trance".

Che cosa si diceva con l'altra Simona?
"Non potevamo parlare molto. Ci costringevano a stare in silenzio, l'una in un angolo, l'altra in un altro angolo della stanza".

Avete detto che a un certo punto i sequestratori vi hanno intrattenuto sui princìpi dell'Islam.
"E' vero. Abbiamo discusso della loro religione. Raccontavano il loro Islam con molte citazioni del Profeta Maometto. A proposito del mondo, della vita... Non mi ricordo".

Simona Torretta, che è seduta accanto a Simona Pari, vestita di nero con un'espressione un po' corrucciata, ritiene di dover spiegare meglio.
Dice: "Ci parlavano dei cinque pilastri dell'Islam. Della professione di fede, dell'imposta coranica, del pellegrinaggio alla Mecca, del digiuno, della preghiera".
Ne approfitto per chiedere a Simona Torretta la fondatezza di un sussurro che ha molto successo in queste ore.

E' vero che lei intende convertirsi all'Islam?
Simona Torretta ride e risponde: "Ho studiato l'arabo. Studio l'Islam e voglio ancora approfondirlo. E' una curiosità intellettuale. Non ho nessuna intenzione di convertirmi".

Con il passare dei giorni e con la minore tensione diminuiva anche l'angoscia, il timore di essere uccise?
Simona Pari: "Ogni giorno mi chiedevo: "Che cosa vorranno fare di noi?". Pensavo costantemente che mi avrebbero uccisa. Quasi vedevo il momento".
Rivedeva quelle orribili immagini di decapitazione?
Simona chiude gli occhi, come per scacciare quel pensiero, quell'immagine. Si rifiuta anche di dire "decapitazione". Scuote soltanto il capo e invoca con gli occhi un'altra domanda.


Con Simona Torretta ha mai parlato dell'ipotesi più infausta?
"No. Mai parlato. Scacci quel pensiero dalla tua testa. Figurarsi dalle tue parole. E poi io, in quelle giornate che sono lunghissime, non avevo paura soltanto che i miei sequestratori mi uccidessero. In quella situazione lì hai paura di tutto. Anche che facciano un blitz e ti ammazzino".

Avete registrato una cassetta con le vostre voci per dare la prova in vita.
"Non voglio rispondere a questa domanda. C'è il segreto istruttorio".

Lo ha detto Scelli, pubblicamente. Dove è il segreto?
"Non voglio rispondere".

Siete state mai filmate?
"Non voglio rispondere".

Al telefono vi è stato mai passato Scelli o un qualche altro italiano?
"Anche qui credo di dover rispettare il segreto istruttorio".

Quale segreto istruttorio? Scelli ha detto di aver parlato con voi.
"Non voglio rispondere".

Avete avuto, e lei in particolare, frutta e yogurt e acqua minerale? Questo, all'esterno è parso come un indizio dell'identità del gruppo.
"Non ho mai chiesto yogurt, né mi è stato mai dato. Bevevamo acqua da caraffe. Non mi è parsa acqua minerale".

E' stata lei a dire ai suoi sequestratori questa sua predilezione alimentare?
"Non mi è stata mai chiesta, né io l'ho mai detta".

E come può essere saltata fuori la storia?
"Non lo deve chiedere a me".

Quando vi siete accorte che la liberazione era vicina?
"Quel giorno ci hanno fatto indossare delle giubbe e un copricapo con tre veli. Ci hanno fatto salire in macchina, dove erano già Manhaz e Ra'ad, che vedevamo per la prima volta dal 7 settembre. Nel tragitto in macchina - dietro quei veli non si vedeva nulla - ci hanno chiesto scusa per quei giorni. Ci hanno ricordato la condizione del popolo iracheno e la loro disperazione per quel che accade. Abbiamo viaggiato tantissimo".

Tutti abbiamo visto il filmato di Al Jazeera. C'era qualcosa di artefatto. Sembrava una messa in scena.
"Non era una messa in scena. Io me ne stavo dietro quel velo. Non vedevo nulla. Non sapevo quel che mi poteva accadere. Ero come intontita. Quando Simona mi ha detto "tiralo su!", l'ho tirato su come un automa. Allora ho visto Scelli e ho pensato che finalmente era finita".

La pistola. Avete visto che è stata consegnata a Scelli?
"Certo, ce l'aveva l'uomo che ci ha accompagnato in macchina".

Era la pistola che doveva uccidervi?
Risponde Simona Torretta: "Io questa storia che quella pistola dovesse ucciderci non l'ho mai sentita. La consegna a Scelli ha solo un valore simbolico, di amicizia, di pace, di risentimento e conflitto finiti. Come nella tradizione araba".

Perché siete state rapite?
"Perché siamo italiane".

C'è un filo che lega il vostro sequestro al rapimento degli altri italiani, i quattro body guard e Enzo Baldoni ucciso dopo il suo interprete Ghareeb?
Simona Pari: "C'è? Io non lo vedo".

Non avete mai pensato che questo filo possa esserci? Voi conoscevate Paolo Simeone e Valeria Castellani, i "reclutatori" di Quattrocchi, Stefio, Cupertino e Agliana. Baldoni vi aveva consegnato il suo denaro in deposito prima di partire per Najaf. Ghareeb "era di casa" nelle stanze di "Un Ponte per...". Come non si fa a pensare, anche soltanto per un attimo, anche soltanto per cancellarlo, che un filo possa esserci?
"E' vero, ho incontrato Simeone e Castellani in una sola occasione. Baldoni è passato da noi, come tutti gli italiani che arrivavano a Bagdad. Ghareeb era un uomo che si dava molto da fare per gli iracheni e noi gli davamo una mano".

Per Scelli, Ghareeb era un "doppiogiochista, palestinese spia degli israeliani".
Simona Pari: "Per noi, Ghareeb era un uomo generoso che veniva di tanto in tanto a chiedere medicine per portarle ai malati". Simona Torretta: "... E in questo slancio si prendeva anche dei rischi. Ricordo che organizzò un convoglio verso Falluja nei giorni dei peggiori bombardamenti sulla città. Riuscì anche a portare fuori da quella infelice città un gruppo di feriti. Al "Ponte", per definizione, teniamo la porta aperta a tutti. Non diciamo "tu sì, tu no". Se viene qualcuno e ha bisogno di medicine da portare a un malato, gliele diamo. Se vuole organizzare un convoglio umanitario gli diamo una mano senza chiedergli chi è e perché lo fa. E' la nostra filosofia. Sono i valori delle organizzazioni internazionali di solidarietà e di pace".

Tra le vostre parole, c'è qualche assenza che mette a disagio. Non avete mai chiesto che gli altri ostaggi siano liberati. Non avete mai condannato il terrorismo che uccide gli innocenti. Ritenete di poterlo fare adesso?
Simona Pari guarda Simona Torretta e non comprendo se con imbarazzo o fastidio. Ci sono lunghi momenti di silenzio, fino a quando Simona Torretta dice: "Fallo! Dillo!".
Simona Pari: "Noi non sapevamo neanche che ci fossero degli ostaggi oltre noi. Nessuno ce lo ha detto, nessuno ce ne ha parlato. No. No, lo giuro. Nessuno ci ha parlato dell'inglese prigioniero, né degli americani decapitati. Io dico che ogni vita deve essere salvata. Che il diritto alla vita è sacro ovunque e per chiunque. Se mi chiede del terrorismo, le rispondo che c'è il terrorismo e c'è la resistenza. La lotta di resistenza di un popolo per liberare il Paese occupato è garantita dal diritto internazionale. Il terrorismo uccide indiscriminatamente anche i civili. Condanno il terrorismo. Nessuno può chiedermi di condannare una lotta di resistenza".


(1 ottobre 2004)


* Pubblicato da la Repubblica.it il 1 ottobre 2004


 
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