Gli errori e i silenzi del presidente Bush di SANDRO VIOLA *

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LA SUPERPOTENZA mondiale, la nazione che per la sua forza militare s'erge su ogni altra come accadde soltanto all'impero romano, da chi è guidata? Quali uomini, e con quali capacità, impongono ogni giorno le proprie scelte agli alleati e agli avversari? Con l'11 settembre, domande del genere erano divenute sconvenienti. I dubbi emersi nei primi mesi della presidenza Bush (per i suoi toni ultimativi, per l'unilateralismo della visione) erano stati messi da parte. Il mondo civile s'era sentito "americano", moralmente e politicamente obbligato ad una totale solidarietà con l'America, deciso a non discutere la condotta della sua leadership. E già gli alleati si preparavano, sia pure obtorto collo, a seguire il governo degli Stati Uniti nella "fase due" della guerra al terrorismo: l'attacco su Baghdad.

Ma da un paio di settimane è più difficile sentirsi "americani". La catastrofe in Palestina ha infatti riportato a galla le domande sull'accortezza dell'amministrazione Bush, consentendo a questo punto di chiedersi a voce alta, senza più remore: chi guida la superpotenza mondiale, quali uomini e quanto capaci? Perché quel che appare ogni giorno più evidente, è che sono stati l'immobilismo americano degli ultimi mesi, la decisione di non interporsi con la necessaria energia tra i contendenti, a spalancare il baratro in cui è precipitata la Palestina.

La scelta di tenersi fuori dal ginepraio mediorientale ha avuto probabilmente varie motivazioni. Il timore d'impantanarsi in un lungo, estenuante andirivieni tra Ramallah e Gerusalemme, le priorità della "guerra al terrorismo" (ancora due giorni fa il "Wall Street Journal", il giornale più vicino all'amministrazione, la esortava a non consumare energie in Palestina), un errore di calcolo nel sottovalutare l'effetto destabilizzante che l'intensificarsi del conflitto avrebbe avuto sull'intera regione.

Il tutto venato da una certa insensibilità, se non si trattava di cinismo, di fronte al cumulo dei morti in Israele e nei Territori. Quel che resta certo, in ogni caso, è che la spirale attentati palestinesi-rappresaglie israeliane ha ricavato dall'immobilismo americano, negli ultimi cinquanta giorni, la sua tremenda, inarrestabile violenza. Provocando a poco a poco la trasformazione della guerriglia in guerra aperta, facendo d'ogni israeliano e d'ogni palestinese un omicida potenziale. Perché tutti, in Palestina, uccidono adesso a sangue freddo. In un articolo di "Haaretz", domenica, si chiedeva infatti ai comandi militari un maggiore controllo sulla truppa per evitare che i soldati sparino senza alcuna vera motivazione, mossi soltanto dal pensiero dei parenti ed amici morti negli attentati, ad ogni arabo che compaia nel mirino del fucile.

I giudizi che vengono dal di dentro degli Stati Uniti sugli errori del governo Bush in Medio Oriente, sono netti. "Distanziandosi in modo irragionevole dal conflitto israelo-palestinese", diceva l'altro giorno l'editoriale del "Washington Post", "la Casa Bianca ha concretamente contribuito a spingere la situazione al suo punto di non ritorno". E in effetti, tra dicembre e la metà di marzo l'inerzia è stata impressionante. In Palestina i morti aumentavano a dismisura, ma George Bush si limitava a ripetere più o meno tali e quali le parole di Sharon: Arafat metta fine agli attentati, e poi si vedrà. La situazione precipitava, europei e arabi invocavano l'intervento degli Stati Uniti, ma Bush non vedeva alcuna necessità d'inviare nella zona un mediatore: neppure lo scolorito e impacciato generale Zinni, che in dicembre aveva fatto una rapida ricognizione della catastrofe e poi, alle prime difficoltà, era rientrato in patria.

A quanto pare, nell'amministrazione s'erano levate varie voci a chiedere un intervento più fermo nei confronti dell'ampiezza e rovinosità delle rappresaglie israeliane. In parecchi s'erano convinti che l'ondata spaventevole dei kamikaze non poteva essere neutralizzata con sempre più massicce campagne militari. Altri proponevano (come adesso stanno chiedendo i democratici al Congresso) l'invio nella zona del segretario di Stato Colin Powell. Altri ancora facevano notare che Sharon aveva fatto passi gravi come il confinamento di Arafat e la rioccupazione di grossi pezzi dei territori dell'Autorità palestinese, così come nel giugno dell'82 aveva avviato l'invasione del Libano: senza sapere esattamente, cioè, con quali obbiettivi finali e a quale costo. Tant'è vero che mentre nel corso della prima "Intifada" era morto un solo israeliano ogni venticinque palestinesi, adesso la proporzione è di uno a tre.

Ma Bush non si muoveva. E non s'è mosso sino alla metà di marzo, quando distogliere lo sguardo dal sangue che scorreva in Palestina era ormai divenuto impossibile. Ancora adesso, tuttavia, quante ambiguità e ondeggiamenti. Il 13 marzo gli Stati Uniti votano al Consiglio di sicurezza dell'Onu per la nascita d'uno Stato palestinese, e Bush dichiara che la politica di Sharon "non favorisce" la ricerca d'una soluzione. Ma nei giorni successivi l'accento è di nuovo posto sulle colpe di Arafat. Sabato scorso c'è un'altra risoluzione del Consiglio di sicurezza, anch'essa votata dall'America, con cui si chiede l'arresto degli attentati palestinesi e allo stesso tempo il ritiro dell'esercito israeliano. Sembra un passo decisivo, una svolta della politica di Washington. Ma poche ore dopo ecco il passo indietro: il presidente parla, e parla per giustificare l'offensiva militare di Sharon come "diritto all'autodifesa".

Il risultato di questo misto d'immobilismo e sortite contraddittorie, è che ogni possibilità di fermare la guerra in Palestina appare oggi puramente teorica. Le possibilità reali si sono consumate negli ultimi due mesi, salvo (forse) una: l'intervento d'una forza armata tutta americana - e quindi accettabile, almeno virtualmente, anche da parte israeliana - col compito di separare i belligeranti. Ma d'una simile iniziativa non s'intravvede a Washington il minimo accenno, e infatti Sharon ignora la risoluzione dell'Onu e fa avanzare l'esercito nelle strade delle città palestinesi.

Così, le domande di cui si diceva all'inizio divengono sempre più inquietanti: chi guida la superpotenza mondiale, quali uomini e quanto capaci? Alcune cose, certo, le conoscevamo già: gli atteggiamenti di superbia o noncuranza nei confronti degli alleati, l'ostentazione d'una forza militare senza rivali, l'assenza di qualsiasi tentativo per rendere più accettabile agli "altri",amici o potenziali avversari, la propria preponderanza. Ma adesso sappiamo anche che sono stati i loro errori ad aggravare la catastrofe in Palestina, errori che allarmano perché inducono a dubitare fortemente dell'avvedutezza politica di chi li ha commessi. Come si può continuare allora, qualsiasi cosa accada, a sentirsi "americani"?

* Commento di Sandro Viola pubblicato su La Repubblica del 02.04.2002.



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