La latitanza dell'impero Usa di VITTORIO ZUCCONI *

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In Europa, in Medio Oriente, nella Roma del Papa, forse persino in America è cominciato finalmente l'assedio alla fortezza dell'indifferenza e dell'ignavia della Casa Bianca davanti alla catastrofe di Palestina. Nel deserto diplomatico creato dall'America di Bush, si alzano le voci che dissentono, che esortano, che tradiscono l'indignazione del mondo per la latitanza di Washington e dunque per la sua oggettiva complicità con Sharon.

Si è mosso il Papa, convocando gli ambasciatori d'Israele e il rappresentante degli Stati Uniti, si è scossa dal proprio torpore l'Europa, che ha avuto il coraggio di chiamare con Romano Prodi "un fallimento" quello che finora Bush (non) ha fatto, e dal Cairo, dalla nazione perno del fronte arabo moderato senza la quale nessuna pace è pensabile, arriva la decisione gravissima di interrompere i rapporti politici con Israele.

Dunque, mentre Sharon assedia i palestinesi, il mondo assedia Sharon, in una serie di cerchi concentrici al centro dei quali c'è la inspiegabile, angosciosa indifferenza di un'America che sa reagire soltanto con le parole del più lucido e del meno ascoltato a Washington, Colin Powell che torna a ripetere che i palestinesi hanno "diritto a uno stato chiamato Palestina".
E' una sorta di ribellione, se non addirittura di un giustificato ammutinamento, questo che l'Europa, gli arabi moderati e persino questo Papa malato e stanco, hanno lanciato contro la impotente egemonia americana e la condotta di questa amministrazione. Se la Casa Bianca non capisce che questi sono segnali d'allarme gravissimi, che la guerra in Palestina sta non soltanto consumando le vite di ebrei e arabi ma sta sgretolando il sistema di alleanze che tengono insieme l'Occidente più civile, significa che il lampo di autorità e di leadership acceso in Bush dagli orrori dell'11 settembre era stato, purtroppo, soltanto un lampo passeggero.

Di fronte all'insensatezza di quanto sta accadendo in Palestina, davanti all'inarrestabile escalation di un reciproco massacro che ormai trova soltanto in se stesso la ragione per essere, è caduta definitivamente l'illusione di poter limitare il proprio ruolo a quello dell'"honest broker", del notaio distaccato e imparziale al quale Bush restava aggrappato. "Lasciati a se stessi" come ha ammesso anche il suo vice, Dick Cheney, palestinesi e israeliani si sono sentiti autorizzati a conquistare a qualunque prezzo posizioni di vantaggio da portare poi, un giorno, alla vidimazione del notaio Usa. La strategia dello "hands off", del togliere le mani americane dal calderone mediorientale, ha indotto i combattenti a scatenare un'offensiva reciproca per migliorare le ragioni di scambio, se e quando l'America si fosse decisa a intervenire. Anziché fattore calmante, l'assenteismo americano, dimostrato in maniera quasi offensiva dalla scelta di inviare un vecchio e irrilevante generale in pensione dei Marines, Anthony Zinni, è stato dunque il fattore scatenante della guerra.

Ma per capire questa verità ovvia, Bush e il suo team dovrebbero dimostrare non soltanto le facili capacità militari, finanziarie o retoriche che abbiamo visto in questi mesi, ma trovare lo slancio difficile per mobilitare l'autorità storica e morale della sola potenza militare globale ancora esistente. Dovrebbero vedere come il ritiro dell'America dal fronte diplomatico non avrebbe potuto portare altro che ai risultati sconvolgenti di quella dottrina del taglione che Sharon applica alla lettera nel terrificante "laboratorio" del conflitto in Palestina e ammettere il proprio fallimento. La necessaria solidarietà per gli amici americani feriti orrendamente l'11 settembre aveva congelato ogni dibattito e ogni obbiezione, aveva impedito la denuncia della evidente debolezza di una "dottrina" meccanicistica e piena quelle trappole nelle quali oggi Sharon sta precipitando. Ma oggi vediamo come la formula dell'occhio per occhio, della violenza contro la violenza, produce una delle fasi meno "sicure" nella straordinaria e tormentata esistenza della nazione ebraica.

Ma questo capo dello stato americano, ammirevole nell'ora dello stupro di Manhattan, non ha dimostrato ancora la statura del leader capace di passare dalla fase della reazione a quella della costruzione strategica, né se ne abbia la tempra. Non sappiamo che cosa stia leggendo Bush in questo momento, quali persone ascolti. Certamente non sta leggendo i libri della storica Barbara Tuchman sulla "follia della Guerra" che Kennedy consultava durante la crisi di missili, o i libri di viaggio e di storia dei Balcani che Clinton studiava prima di lanciare la guerra in Kosovo. Non sappiamo se lui, abbagliato dalla "filosofia della serena ignoranza" che guidava il suo idolo Reagan, capisca per esempio i segnali di antisemitismo profondo e rinnovato che stanno spuntando in Europa. Se abbia, come aveva il padre che aveva grande esperienza del mondo, la sensazione che attorno al Medio Oriente si stia coagulando non soltanto il terrorismo islamico estremista, ma la nuova ideologia dell'antiamericanismo assoluto, successore potenziale del comunismo internazionale in una guerra non più fredda, ma calda.

Sappiamo però che la latitanza dell'America in questo conflitto ha prodotto un vuoto ideale, oltre che diplomatico, che qualcuno deve riempire, o con il segno positivo, come tenta ora di fare l'Europa, o con il segno del male, come il terrorismo islamico sta sicuramente progettando di fare. Bush non vuole ammetterlo perché il Medio Oriente ha in sé il germe del fallimento della sua meccanica "dottrina", perché dimostra come il terrorismo debba essere combattuto ma non possa essere vinto soltanto con aerei e missili. Questa guerra non ha bisogno di chiacchiere su Piani Marshall che serviranno, semmai, dopo, ma di scatti morali e di colpi di fantasia che spezzino le immagini della guerra e la spirale del taglione, ha bisogno di un presidente americano che si metta in gioco in prima persona, per salire i vicoli di Betlemme, di Gaza, di Ramallah, per visitare le rovine dei ristoranti mattatoi a Tel Aviv e Gerusalemme ed essere testimone di pace, come seppero esserlo Begin e Sadat 34 anni or sono, come rifarebbe il Papa se ne avesse potenza materiale oltre che potenza morale.

Soltanto se l'assedio alla fortezza vuota di Washington continuerà con forza e se Bush avrà il coraggio di riconoscere il fallimento della prima fase della guerra al terrorismo, della quale la catastrofe in Palestina è la metafora e la manifestazione, e spendersi di persona, questa Casa Bianca potrà ritrovare quella leadership morale, oltre che materiale, che le riconoscemmo l'11 settembre e ora la stessa America sta demolendo in maniera palesemente autolesionista. Come ha detto James Rubin, l'ex sottosegretario di Stato americano e israelita egli stesso, ogni giorno che trascorre con aerei, elicotteri, missili americani che uccidono palestinesi, la convinzione che l'America sia il nemico di tutto il mondo arabo si rafforza. Questo è il senso del grido di Mubarak, dell'Europa, del Papa, di tutti coloro che hanno capito che in Palestina la campana suona anche per noi.


* Commento di VITTORIO ZUCCONi pubblicato su La Repubblica del 04.04.2002.



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