In Europa, in Medio Oriente, nella
Roma del Papa, forse persino in America è cominciato finalmente l'assedio
alla fortezza dell'indifferenza e dell'ignavia della Casa Bianca davanti
alla catastrofe di Palestina. Nel deserto diplomatico creato dall'America
di Bush, si alzano le voci che dissentono, che esortano, che tradiscono
l'indignazione del mondo per la latitanza di Washington e dunque per
la sua oggettiva complicità con Sharon.
Si è mosso il Papa, convocando gli ambasciatori d'Israele e il rappresentante
degli Stati Uniti, si è scossa dal proprio torpore l'Europa, che ha
avuto il coraggio di chiamare con Romano Prodi "un fallimento" quello
che finora Bush (non) ha fatto, e dal Cairo, dalla nazione perno del
fronte arabo moderato senza la quale nessuna pace è pensabile, arriva
la decisione gravissima di interrompere i rapporti politici con Israele.
Dunque, mentre Sharon assedia i palestinesi, il mondo assedia Sharon,
in una serie di cerchi concentrici al centro dei quali c'è la inspiegabile,
angosciosa indifferenza di un'America che sa reagire soltanto con le
parole del più lucido e del meno ascoltato a Washington, Colin Powell
che torna a ripetere che i palestinesi hanno "diritto a uno stato chiamato
Palestina".
E' una sorta di ribellione, se non addirittura di un giustificato ammutinamento,
questo che l'Europa, gli arabi moderati e persino questo Papa malato
e stanco, hanno lanciato contro la impotente egemonia americana e la
condotta di questa amministrazione. Se la Casa Bianca non capisce che
questi sono segnali d'allarme gravissimi, che la guerra in Palestina
sta non soltanto consumando le vite di ebrei e arabi ma sta sgretolando
il sistema di alleanze che tengono insieme l'Occidente più civile, significa
che il lampo di autorità e di leadership acceso in Bush dagli orrori
dell'11 settembre era stato, purtroppo, soltanto un lampo passeggero.
Di fronte all'insensatezza di quanto sta accadendo in Palestina, davanti
all'inarrestabile escalation di un reciproco massacro che ormai trova
soltanto in se stesso la ragione per essere, è caduta definitivamente
l'illusione di poter limitare il proprio ruolo a quello dell'"honest
broker", del notaio distaccato e imparziale al quale Bush restava aggrappato.
"Lasciati a se stessi" come ha ammesso anche il suo vice, Dick Cheney,
palestinesi e israeliani si sono sentiti autorizzati a conquistare a
qualunque prezzo posizioni di vantaggio da portare poi, un giorno, alla
vidimazione del notaio Usa. La strategia dello "hands off", del togliere
le mani americane dal calderone mediorientale, ha indotto i combattenti
a scatenare un'offensiva reciproca per migliorare le ragioni di scambio,
se e quando l'America si fosse decisa a intervenire. Anziché fattore
calmante, l'assenteismo americano, dimostrato in maniera quasi offensiva
dalla scelta di inviare un vecchio e irrilevante generale in pensione
dei Marines, Anthony Zinni, è stato dunque il fattore scatenante della
guerra.
Ma per capire questa verità ovvia, Bush e il suo team dovrebbero dimostrare
non soltanto le facili capacità militari, finanziarie o retoriche che
abbiamo visto in questi mesi, ma trovare lo slancio difficile per mobilitare
l'autorità storica e morale della sola potenza militare globale ancora
esistente. Dovrebbero vedere come il ritiro dell'America dal fronte
diplomatico non avrebbe potuto portare altro che ai risultati sconvolgenti
di quella dottrina del taglione che Sharon applica alla lettera nel
terrificante "laboratorio" del conflitto in Palestina e ammettere il
proprio fallimento. La necessaria solidarietà per gli amici americani
feriti orrendamente l'11 settembre aveva congelato ogni dibattito e
ogni obbiezione, aveva impedito la denuncia della evidente debolezza
di una "dottrina" meccanicistica e piena quelle trappole nelle quali
oggi Sharon sta precipitando. Ma oggi vediamo come la formula dell'occhio
per occhio, della violenza contro la violenza, produce una delle fasi
meno "sicure" nella straordinaria e tormentata esistenza della nazione
ebraica.
Ma questo capo dello stato americano, ammirevole nell'ora dello stupro
di Manhattan, non ha dimostrato ancora la statura del leader capace
di passare dalla fase della reazione a quella della costruzione strategica,
né se ne abbia la tempra. Non sappiamo che cosa stia leggendo Bush in
questo momento, quali persone ascolti. Certamente non sta leggendo i
libri della storica Barbara Tuchman sulla "follia della Guerra" che
Kennedy consultava durante la crisi di missili, o i libri di viaggio
e di storia dei Balcani che Clinton studiava prima di lanciare la guerra
in Kosovo. Non sappiamo se lui, abbagliato dalla "filosofia della serena
ignoranza" che guidava il suo idolo Reagan, capisca per esempio i segnali
di antisemitismo profondo e rinnovato che stanno spuntando in Europa.
Se abbia, come aveva il padre che aveva grande esperienza del mondo,
la sensazione che attorno al Medio Oriente si stia coagulando non soltanto
il terrorismo islamico estremista, ma la nuova ideologia dell'antiamericanismo
assoluto, successore potenziale del comunismo internazionale in una
guerra non più fredda, ma calda.
Sappiamo però che la latitanza dell'America in questo conflitto ha prodotto
un vuoto ideale, oltre che diplomatico, che qualcuno deve riempire,
o con il segno positivo, come tenta ora di fare l'Europa, o con il segno
del male, come il terrorismo islamico sta sicuramente progettando di
fare. Bush non vuole ammetterlo perché il Medio Oriente ha in sé il
germe del fallimento della sua meccanica "dottrina", perché dimostra
come il terrorismo debba essere combattuto ma non possa essere vinto
soltanto con aerei e missili. Questa guerra non ha bisogno di chiacchiere
su Piani Marshall che serviranno, semmai, dopo, ma di scatti morali
e di colpi di fantasia che spezzino le immagini della guerra e la spirale
del taglione, ha bisogno di un presidente americano che si metta in
gioco in prima persona, per salire i vicoli di Betlemme, di Gaza, di
Ramallah, per visitare le rovine dei ristoranti mattatoi a Tel Aviv
e Gerusalemme ed essere testimone di pace, come seppero esserlo Begin
e Sadat 34 anni or sono, come rifarebbe il Papa se ne avesse potenza
materiale oltre che potenza morale.
Soltanto se l'assedio alla fortezza vuota di Washington continuerà con
forza e se Bush avrà il coraggio di riconoscere il fallimento della
prima fase della guerra al terrorismo, della quale la catastrofe in
Palestina è la metafora e la manifestazione, e spendersi di persona,
questa Casa Bianca potrà ritrovare quella leadership morale, oltre che
materiale, che le riconoscemmo l'11 settembre e ora la stessa America
sta demolendo in maniera palesemente autolesionista. Come ha detto James
Rubin, l'ex sottosegretario di Stato americano e israelita egli stesso,
ogni giorno che trascorre con aerei, elicotteri, missili americani che
uccidono palestinesi, la convinzione che l'America sia il nemico di
tutto il mondo arabo si rafforza. Questo è il senso del grido di Mubarak,
dell'Europa, del Papa, di tutti coloro che hanno capito che in Palestina
la campana suona anche per noi.
* Commento di VITTORIO
ZUCCONi pubblicato su La Repubblica del
04.04.2002.
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