" Vi consigliamo un libro / Rubrica "

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"Vi consigliamo un libro" vuole essere una sorta di rubrica dove avremo la presunzione di consigliarvi le letture che più ci hanno colpito.

 

 

 

 
 
Autrice: Aine Cavallini
Titolo: Diario di una giovane palestinese
Editore: Edizioni Clandestine
Prezzo: € 8,30

Diario di una giovane palestinese

Quando un popolo geme, dilaniato dalle angherie di un invasore più forte di lui, quando la sua umanità viene calpestata, i diritti elusi e la pazienza esasperata; quando il nome di una nazione viene cancellato dalle mappe del mondo e la sua dignità e orgoglio vengono frustrati; quando tutto cio' avviene . . .

Il sedicente stato di israele è sopravvissuto fino ad oggi solo grazie alle stragi, alla violenza e al terrore.

L'essere umano insorge.

Questa è la sconvolgente testimonianza del genocidio di un popolo inerme.

Dalla nascita dell'Intifada ad oggi, la sconvolgente testimonianza di una giovane donna, il carcere, le umiliazioni quotidiane per affermare la propria identità.

L'autrice:
Aine Cavallini è nata nel 1973 a Firenze. Vive a Fiesole e lavora in una società di consulenza informatica. Affascinata fin dall’infanzia dalla parola scritta, ha coltivato per anni la passione per la scrittura poetica. Diario di una giovane palestinese è la sua prima prova narrativa, nata dalla profonda amicizia con una giovane donna palestinese conosciuta in Italia nel 1999.

Il volume e reperibile nel sito dell'autrice Aine Cavallini e anche reperibile in tutte le librerie italiane.

Per acquistare il libro, ricevere informazioni, contattare l'autrice, potete scrivere all'indirizzo: ainecavallini@virgilio.it

 


DIARIO DI UNA GIOVANE PALESTINESE

DAIR NETHAM (RAMALLAH)

Correvo come una pazza senza sapere dove stessi andando. Era più la foga della gente a impormi insensatamente le più svariate direzioni che io stessa a poter decidere una specifica via di fuga. Mi spintonavano facendomi ondeggiare come una barca a vela in pieno maremoto; e chi cascava veniva travolto.

Improvvisamente Nader m'afferrò per un braccio proprio mentre stavo per finire nella bocca del leone: un carro da combattimento stava venendo verso di me con un cannone ad anima liscia e le due mitragliatrici laterali puntate verso i civili inermi. Non ebbi neanche il tempo di ripararmi che il primo colpo fece esplodere un'intera costruzione a poche centinaia di metri. Il boato creò ancora più scompiglio. Non riuscivo a capire niente. Il panico m'attanagliò lo stomaco e vomitai. Disteso ai miei piedi vidi il cadavere di una donna e in ginocchio un bimbo in lacrime, laido, che l'accarezzava. Mi guardai intorno, spaurita. Cercavo disperatamente Nader, gli occhi mi strabuzzavano, lo avevo accanto ma non lo vedevo. Ero sudata e sporca. Il commando armato avanzava minaccioso; ancora qualche ragazzo gli lanciava contro pietre, dileguandosi poi dietro alcune macerie.

Stavano cadendo bombe a grappolo anche a pochi chilometri di distanza.

Al posto delle gioiose abitazioni in pietra regnavano solo fumo e un cancro maligno di disperazione. I lampeggianti delle ambulanze sembravano fulmini in disperato soccorso; zigzagavano, cercando di evitare i proiettili degli israeliani che, a loro volta, volevano impedire alle ambulanze di raggiungere l'ospedale di Ramallah. I posti di blocco erano disposti in modo tale da far sì che i mezzi di soccorso effettuassero degli inutili dispendi di tempo, così che, quando riuscivano a raggiungere l'ospedale, non si poteva fare più niente per la vittima.

Dall'altra parte della barricata i coloni inneggiavano alla distruzione e alla morte, meschinamente scortati dalle truppe sioniste d'occupazione.


ESULE IN PATRIA

Vorrei essere una bambina, vorrei vedermi bambina, vorrei camminare libera fra le vie della mia città; vorrei non avere un cuore, non avere occhi, non avere un'anima perché i miei sentimenti non debbano disperdersi nel vento freddo della paura e della solitudine, perché il mio sguardo non si posi erroneamente sui corpi dei soldati che, pavoneggiandosi con i loro fucili, si dilettano a farmi sussultare ogniqualvolta li incontro.

Ma è ancora lungo il percorso a piedi da Betlemme. Mi palpita il cuore quando passo fra gli uliveti in fiore: il profumo di quelle gemme bianche è inebriante, tanto che non mi accorgo neppure di scorgere in lontananza le mura della Città Santa. Yarabbi! A volte vorrei sparire nei meandri delle mie paure, come l'omertà di certa gente…
Ma sono ancora bambina? Me lo chiedo perché il lasso di tempo dalla pubertà ai miei attuali trentadue anni è trascorso così, con tanta amarezza, da sentirne oggi quasi una puerile nostalgia.

Sono qui, con le scarpe ancora sporche di terra, e non sono neppure sicura che mi faranno entrare nel cuore di Gerusalemme. Sono arrivata fin qua di nascosto, profuga nella mia stessa patria, mercenaria nella mia terra, e guardo da lontano, scruto con rabbia e dolore le mura di una città, della mia città, la stessa cui non potrò accedere senza prima esservi divenuta straniera.

Mi capita spesso di sedermi ai piedi di un ulivo, su una collinetta a osservare quei piccoli uomini in uniforme, tanto orgogliosi quanto indisponenti: fermano ogni mezzo che arriva, chiedono i documenti e, se insoddisfatti, perquisiscono, spintonano, malmenano il malcapitato che, se fortunato, riesce ad evitare la traduzione al distretto per un tahkik, un interrogatorio.

E io osservo il tutto, protetta dalla lontananza in cui si svolgono le scene, consolata dal fatto che da qui non mi vedrà nessuno.

A volte piango, lacrime di rabbia m'irrigano il volto come sottili sfregi e penso, penso alle storie che mi racconta il nonno jed, descrivendomi com'era la vita prima del '48, prima che una violenta "grandinata" devastasse tutta la Palestina, prima che la nekba, la catastrofe, fosse compiuta.

Il nonno è ancora alto per la sua età; nonostante i suoi settantotto anni il tempo non ha rattrappito i suoi arti che, al contrario, continuano a essere elastici e ben disposti in quella figura slanciata e longilinea; i capelli sono d'un ceruleo splendente e lo sguardo - occhi neri come il petrolio che ha estratto nella sua gioventù in Arabia Saudita - ancora così inquietante e minaccioso; ma nonostante ciò il cuore ne falsa l'imperturbabilità e non riesce a mascherare un carattere dolce e affettuoso.

Emigrò a Medina perché non voleva trascorrere la sua vita a lavorare la terra come il padre e il padre di suo padre, e quasi per orgoglio partì da Gerusalemme appena giovincello, intorno agli anni '30; approfittando della scoperta dell'oro nero, confidò in un "boom" economico che però non avvenne prima della fine della Seconda guerra mondiale. La lontananza dalla sua patria si faceva anno dopo anno sempre più dura e la sua insofferenza sempre meno contenuta; dopo circa vent'anni fece ritorno dalla sua habiba, la sua amante-compagna - come lui la definisce tutt'oggi - che lo accolse benevolmente, così come una madre riabbraccia il figlio esule.

È meraviglioso sentire i suoi racconti, seguire dal profondo dell'anima l'eccitazione e l'enfasi che mostra nel descrivere luoghi ed eventi accaduti.

Crede ancora che nella terra palestinese vi sia qualcosa di magico: come un fiore che nasce dalla roccia, i palestinesi l'hanno fertilizzata e coltivata, e come il nero limo che si deposita sulle sponde del Nilo dopo le inondazioni, il profumo di questo bene ferruginoso penetra acre nelle narici di chi vi nasce e lo fa suo, per sempre . . . . . . . . . .

LA PRIGIONIA

Quando tutte fummo scese dal furgoncino, ci misero in fila indiana e lentamente c'incamminammo all'interno del "sarcofago" cementato. Mentre camminavamo, le guardie tenevano lo sguardo fisso su di noi; quelle a cui passavamo accanto, sghignazzavano e si picchiettavano il manganello sui palmi, beandosi del fatto che avevano a disposizione nuovi "giullari" con cui dilettarsi. Cercavo di non guardare in faccia nessuna di loro, sapendo quanto questo le potesse irritare, ma quando un manganello rotolò in fondo ai miei piedi non potei evitare di alzare lo sguardo e vedere a chi fosse caduto. Una guardia robusta, quasi grassa, di carnagione lattiginosa e capelli corvini riccioluti, raccolti in una disordinata coda di cavallo, mi fissò e digrignò i denti. Se non avessi saputo che nelle carceri femminili presidiano guardie donna, quel volto taurino lo avrei potuto scambiare per uno maschile. Tra l'altro, pure un brutto uomo. Sputò sul manganello, con buona mira, e mi obbligò a inginocchiarmi e raccoglierlo con la bocca proprio sul punto in cui la sua saliva era caduta. Obbedii. Quando feci per restituirglielo, mi si avvicinò, mi sferrò un pugno nello stomaco e mi urlò che mai più avrei dovuto osare darle qualcosa se prima non mi fossi accertata che fosse ben pulito e rilucente. Passai il manganello più volte sul mio golf e glielo resi. Scoppiò in una furente risata e se ne andò. Allontanandosi le sentii digrignare uno "Stupida araba". Mi venne un urto di vomito e lacrime di rabbia mi colmarono gli occhi, ma riuscii a trattenermi. Qualche giorno più tardi scoprii di avere avuto il "piacere" di fare la conoscenza del sergente maggiore Karen Sapir. Spalla destra del direttore del carcere - quest'ultimo, unica figura maschile.

Ci condussero in una grande stanza e ci fecero spogliare. Credevo che le scene dei prigionieri viste in TV fossero amplificazioni della realtà, ma per la prima volta mi accorsi di quanto fossi in errore. Avevo i piedi congelati e le unghie livide. Ci misero una accanto all'altra, ci fecero aprire le gambe e ci ispezionarono. Una per una, ci passarono le mani laide su tutto il corpo; con una torcia ci aprirono la vulva e l'ano per appurare che non vi avessimo nascosto strumenti di fuga o suicidio.

Oggi so che questi atti non vengono perpetrati per pura prassi di sicurezza, ma rappresentano un'esclusiva attività ludica, diretta solo a umiliare e spaventare l'individuo.

Dopo la perquisizione fummo condotte, ancora semisvestite, sporche e tremolanti, alle celle. Era buio, non potevo farmi un'idea precisa della dimensione dell'ambiente, che comunque immaginai molto piccolo; provai a tastoni a percorrerne perimetralmente le pareti e dedussi che aveva un'irregolare forma quadrangolare. Inciampai su un ostacolo, che realizzai in seguito essere la latrina, e sbattei contro il lavabo. Ci imposero il massimo silenzio. Sapevo di non essere sola in quella stanza. Un altro essere brancolava come me, nella desolazione di quella notte infinita.

Quando dal cielo si squarciò uno spicchio di luna, facendosi spazio tra la sagace preponderanza delle nubi, riuscii a visualizzare una figura fantasmagorica. Eravamo a circa un metro di distanza, entrambe semiterrorizzate e infreddolite. Due brande erano dislocate sui lati contrapposti della cella. Mi diressi verso quella creduta a me più vicina e mi lasciai scivolare sopra lentamente. Altrettanto fece la mia compagna, poiché dopo qualche secondo sentii scricchiolare il metallo della rete dalla parte opposta.

Lo stomaco mi si rivoltò dall'odore nauseante che emanava la coperta sotto cui mi raggomitolai. Sembrava collezionasse gli odori più mostruosamente schifosi esistenti in natura: vomito, escrementi e sangue marcio. Era rigida come fosse fatta di carta vetrata. Nonostante questo non potei fare a meno di tirarmela su fino all'estremità del naso; il freddo era così paralizzante che mi sarebbe stato impossibile resistere senza niente addosso. Ben presto le mie narici si assuefecero a quel miasma, e non avrei più saputo distinguere un profumo di Cacharel dal letame di un porcile per molto tempo.

Da una finestrella aperta, di una trentina di centimetri di altezza e larghezza, potevo scorgere le nubi che andavano e venivano, a volte liberando, a volte coprendo il bagliore lunare. Abbracciai le ginocchia con entrambe le braccia e mi misi a piangere, cercando di trattenere i singulti. Dall'altra parte non sentivo alcun movimento ed ero stranita, quasi innervosita per il fatto che quella figura, ancora sconosciuta, che tuttavia condivideva il mio stesso tormento e la mia struggente disperazione, non si mostrasse vinta e che, al contrario, apparisse tanto più forte di me. Imparai presto, però, che quell'iniziale senso di invidia si sarebbe trasformato in puro istinto di sopravvivenza anche per me.

Pensai a Nader, mi chiedevo se fosse ancora vivo e se mai avrei avuto la possibilità di rivederlo; immaginai che forse lo avrei fatto, presto, in un'altra vita. La fantasia prese il sopravvento e lentamente le lacrime si gelarono sul mio volto e il freddo divenne talmente mio da cullarmi nel sonno.

Una sirena ci svegliò tutte di soprassalto; credo fosse l'alba perché dalla grata si riuscivano a intravedere flebili spiragli di luce. Notai un'ombra, in piedi, al bordo più estremo del mio letto, che mi guardava. Mi girai verso la branda opposta e vidi che era vuota. Scoprii con meraviglia, ma anche con altrettanto piacere, chi fosse la mia compagna di cella: si trattava della stessa donna che mi aveva aiutata il pomeriggio precedente, sfidando la furia delle guardie. Nonostante il violento risveglio e l'amara riscoperta della realtà, la sua immagine amichevole mi donò un senso di fiducia.

Non sapevo neppure quando, ma probabilmente durante la notte le guardie ci avevano gettato dalla guardiola delle tute da lavoro; erano di cotone e certo non sarebbero state sufficienti per proteggerci dal freddo di quelle notti gelide pregne della più amara disperazione, ma era comunque meglio di niente.

LE SEVIZIE

La mia compagna mi sorrise e mi mostrò la porta della cella: era aperta. Voci strozzate si udivano tutte attorno; mi erano penetrate nel cervello come aculei. Forse era addirittura dalla notte precedente che lamenti cospargevano ovunque la prigione di desolazione e inquietudine. Poi, lei venne fatta uscire nel cortile esterno e io fui incappucciata e portata in quelle che oggi definisco "catacombe". In realtà non hanno niente in comune con quelle usate dagli antichi romani, ma il fatto di ritrovarmi come una sepolta viva mi fece sentire come un martire cristiano in occulto, rincorrendo, tra corridoi scavati come in un averno, un'illusione di salvezza. Mai avrei creduto che tra la sabbia del deserto potesse celarsi tanta disperazione. Man mano che procedevo, lamenti, pianti e grida dominavano ovunque. E più avanzavo, più il mio terrore cresceva. I passi rimbombavano, le braccia erano legate dietro la schiena. Improvvisamente fui fermata, mi sciolsero le mani e mi sentii strappare i vestiti di dosso. Il cappuccio continuava a serrarmi ogni possibilità di vedere quello che mi avrebbero fatto e chi fosse l'aguzzino. Fui sbattuta contro una parete, non avevo possibilità di muovermi perché una mano fredda e ripugnante mi teneva premuto il petto e un'altra mi cingeva la gola. Il mio respiro si fece sempre più affannoso, il panico prese nuovamente il sopravvento finché gridai: "No!" con tutto il fiato. Ansimavo, mi sembrava di morire, ma la morte sarebbe stata una liberazione, e certo non era la libertà che loro volevano per gente come me. Col tempo avrei anche compreso che una qualsiasi richiesta di aiuto, in quel luogo, la si udiva solo ed esclusivamente come un incitamento a perseguire il martirio che il vessatore stava compiendo. Mi sollevarono entrambe le braccia e mi serrarono le mani a due manette inchiodate alla parete. Mi tolsero il cappuccio, ma mi abbandonarono nell'oscurità più avvilente.

Notai che i miei piedi penzolavano, distando dal pavimento solo pochi, pochissimi millimetri. Dopo qualche ora mi resi conto dello scopo di tale posizione. Avevo la sensazione di posare i piedi in terra, ma non ci riuscivo. I miei nervi percepivano l'energia incrociata tra il pavimento e il mio corpo, tanto che cercavo di allungarmi fino all'inverosimile per tentare di soddisfare quel disperato senso di necessità. Presto le piante dei piedi iniziarono a dolermi, a martellarmi e a informicolirsi. Ben presto tutto il corpo si fece avvincere da questo tormento, e seguiva la mente in un turbinio di dolore lancinante. Il campo energetico, che mi attanagliava in una morsa sorprendentemente diabolica, mi stava annientando. E il panico mi colse quando capii che non avevo la minima idea di quanto tempo avrei dovuto trascorrere in quelle condizioni, e soprattutto, per quale motivo stavo subendo tutto ciò. In genere si applicano torture laddove si cerca di estorcere informazioni, ma nel mio caso, non solo non mi era stato chiesto niente, ma neppure potevo serbare in me un segreto tale da suscitare un simile interesse negli israeliani.

I lamenti, le voci divenute diafane delle altre seviziate, divennero inverosimilmente stupide. Arrivai a non sentirle neppure più quando anch'io iniziai a gridare e scongiurare di essere liberata. I miei piedi si erano fatti di piombo e la circolazione era andata. Martellavano e pulsavano come il ritmo del mio cuore; sentivo le vene gonfie, sarebbe bastato niente per farmele scoppiare.

Fui relegata così, in quella posizione, per non so quanti giorni, senza viveri, senza un essere vivente che passasse di lì, senza alcun contatto, di nessun tipo, completamente nuda, al gelo delle notti desertiche e accompagnata ritmicamente dai lamenti di altre disperate. Dopo la prima notte, il cervello iniziò a dare i primi segni di cedimento . . . . . . . . . .

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