Breve trattato sulla musica araba

di Longo Pietro
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L’arte musicale araba è forse ciò che subito sovviene nell’immaginario collettivo, non appena la mente si volge ad oriente. Le atmosfere riscaldate dal sole e dalla sabbia del deserto sembrano veicolare melodie che richiamano una cultura tanto diversa e che come tutte quelle esistenti nel globo terrestre ha usato il medium musicale come proprio primo mezzo espressivo. Com’è noto i popoli hanno da sempre preferito prima cantare che recitare, così come hanno scelto di ricordare e tramandare a memoria rispetto che scrivere e divulgare. Forse per motivi logistici (la mancanza di supporti su cui scrivere), forse per istinto le culture arcaiche hanno affidato il proprio ricordo alla memoria collettiva piuttosto che a segni tangibili che evitassero l’oblio. La cultura araba preislamica o nota come “della Jahiliyya” ovverosia dell’Ignoranza dalla parola di Dio, così chiamata dai dotti Musulmani in netta contrapposizione con la rivelazione del profeta Muhammad, è conosciuta proprio tramite testimonianze per così dire musicali. Le prime attestazioni letterarie del patrimonio arabo, geograficamente da posizionarsi nella Jazirat al Arab, la penisola degli Arabi (l’attuale penisola araba) in un tempo che inizia nel 500 circa d.c., sono testi talvolta anche molto lunghi in poesia, dotate già allora di una metrica e di un certo rigore stilistico. Fra questi spiccano le “appese”, le Mu’allaqat, i 7 componimenti di altrettanti poeti professionisti, selezionate per la loro particolare e rara bellezza e “appese” incise a caratteri dorati sopra il tempio della Ka’ba alla Mecca. Tali testi letterari, noti già al poeta Goethe che le raccolse nel suo “West Diwan” erano canti di memoria, grossomodo simili ai miti greci e forse inizialmente agli stessi poemi omerici (laddove si ritengano questi come insiemi di canti inizialmente orali che Omero avrebbe “solo” sistematizzato) ovvero fungevano da catalizzatori del ricordo comune di una tribù e impedivano che certi avvenimenti anche di cronaca, si perdessero nel tempo. Queste “Qasidat” cioè componimenti erano tramandati di generazione in generazione, e mantenevano alto il nome o il ricordo di gruppi, capi guerrieri e principi, che erano i primi protagonisti dei componimenti. Il poeta, che evidentemente doveva essere un portavoce dato che si limitava a raccogliere componimenti già esistenti nel patrimonio collettivo e a versificarli, si esibiva durante le tante feste pagane accompagnati talvolta dal suono del Liuto. I temi di questi carmi ricordano molto la poesia saffica o comunque erotica greca. Il proemio amoroso o Nasib fa parte di un canone che si ripete in tutte le poesie. Una struttura fissa, contenente una serie di tematiche viene dunque musicata sfruttando una caratteristica tipica della lingua araba, ovvero una musicalità intrinseca dovuta alla scontro di sillabe lunghe e sillabe brevi.

La musicalità è rimasta come caratteristica della cultura arabo-islamica.
Se già il popolo arabo-pagano era solito musicare il proprio patrimonio letterario, l’avvento del profeta Muhammad amplifica tale abitudine. Il poeta venne più volte scambiato per un cantore-poeta lungo il corso della sua vita e predicazione dal momento che la profezia e la rivelazione che discendeva su Muhammad veniva da questo trasmessa in forma non esattamente musicale ma salmodiata. Tutt’oggi il Corano viene salmodiato o recitato (più che cantato) e tutta una serie di cantanti appartenenti alla scena musicale araba moderna (anche la famosa Oum Kalthoum) sono o sono stati recitatori del Corano prima che cantanti in senso pieno del termine

Ud, che significa "legno", strumento
musicale considerato modello
basilare per tutta la musica araba. (Arab.it)

Ma esattamente la musica araba che caratteristiche possiede, aldilà delle sue radici storiche? Come facente parte del patrimonio culturale arabo, la musica ha avuto nel tempo esiti differenti seppur origini comuni. Come è noto è possibile parlare al contempo di un popolo arabo (inteso come l’etnos arabo) alla stessa maniera con cui è possibile parlare di un popolo tunisino, algerino, libanese etc. Le migrazioni e le commistioni interetniche che hanno interessato il popolo arabo nel corso della sua storia lo hanno portato a contatto con genti diversissime, dai berberi agli indiani e se da una parte il patrimonio culturale fondamentale è rimasto immutato sostrato comune, dall’altra parte spinte particolaristiche hanno impresso la loro influenza così da generare diversificazione. La musica araba oggi è meno omogenea che in passato e forse faremmo bene a parlare di musica marocchina, algerina irachena e così via. Ciò che va sottolineato è quindi il fattore geografico. L’estensione nella Dar al Islam di un patrimonio che oggi a tratti è difficilmente un fattore unificatore. Tutto ciò ovviamente alla luce di una antica somiglianza che esiste ancora in teoria e in struttura. I musicologi tendono a diversificare almeno 3 scuole musicali: la prima è quella maghribina, quella Siro-Egiziana, quella Irachena e una quarta che si può definire Arabo-Africana.

Le caratteristiche di questo tipo di musica risiedono nell’organizzazione melodica e nella tecnica vocale. Non esiste un sistema temprato e neppure un concetto di armonia. Gli strumenti suonano tutti una medesima linea melodica, differenziandosi per quantità ovverosia alcuni strumenti suonano un’ottava sopra altre sotto rispetto alla linea melodica principale. La notazione della linea melodica non avviene in forma scritta, infatti un musicista arabo non concepirebbe la scrittura del pentagramma. L’organizzazione avviene tutta tramite il manico del liuto arabo, che è infatti lo strumento più importante. Da ciò deriva che le “note”arabe hanno tutte un nome diverso e non si definiscono in base alle ottave. Il concetto principale di questo tipo di musica è il “Maqam” che possiamo tradurre come il luogo entro cui avviene la composizione musicale. Ogni Maqam possiede inoltre una sua specificità un suo contenuto emotivo, ovvero una specifica espressività melodica. I trattati di musica araba sono parecchi e tutti databile in un periodo di tempo che va dal nono al tredicesimo secolo. Non esistono dei materiali cartacei però che accompagnino il musicista durante la sua esibizione, ma è lasciato ampio spazio all’improvvisazione. Un “concerto” può durare diverse ore, durante le quali si avvicendano più esecutori che suonano il repertorio detto anche “Wasla” esso si compone per:

- una serie di brani cantati di diversa velocità
- un intermezzo strumentale o apertura della seconda parte del concerto
- l’improvvisazione strumentale o vocale che può avere diversa collocazione nel concerto.

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