I rapporti tra il fascismo e il mondo arabo - islamico
di Enrico Galoppini
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Se ci accontentassimo degli schemi preconcetti condizionati dalle dicotomie assurte nel secondo dopoguerra a valore di dogma - destra/sinistra, razzismo/antirazzismo, colonialismo/terzomondismo eccetera - faticheremmo davvero non poco a darci ragione di un complesso rapporto, tra luci ed ombre, spesso contraddittorio, talvolta entusiasta e sincero, che vide protagonisti personaggi e situazioni che animarono una tempèrie per la quale, col senno di poi, è stata coniata da storici forse più interessati a fornire materiale utile alla cronaca mediorientale che al servizio della Verità, l'ingenerosa espressione di "filofascismo arabo". Indubbiamente, sia la parte fascista che quella arabo-musulmana - da considerare nella loro complessità e da non ridurre quindi a blocchi monolitici - perseguivano obiettivi di fondo differenti, ma è sulla via del loro raggiungimento che si trovarono a percorrere in compagnia alcuni tratti di strada.

Se le delusioni generate dai diktat della Conferenza della pace di Versailles (19 gennaio-28 giugno 1919) egemonizzata da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia - che per l'Italia si tradussero nello smacco della cosiddetta "vittoria mutilata" e per il mondo arabo-islamico sancirono il tradimento delle aspirazioni all'indipendenza all'insegna dell'arabismo e dell'Islàm - avevano già creato un primo terreno d'incontro tra due realtà emergenti, fino a tutti gli anni Venti la politica estera del fascismo è estremamente prudente, ma è a partire dai primi anni del decennio successivo e specialmente dopo la guerra d'Etiopia del 1935-36 (presentata ai musulmani come un riscatto dalle vessazioni perpetrate ai loro danni dal Negus) che una strategia mediterranea apertamente filo-islamica e perciò anti-francese e anti-inglese (non si dimentichi che all'epoca sia il Maghreb che il Mashreq arabi erano, secondo modalità differenti, sotto il controllo anglo-francese) viene adottata con sempre maggiore audacia: si dà un maggior impulso agli studi arabi e d'islamologia, s'intensificano le iniziative di penetrazione culturale e ideologica (la Fiera del Levante dal 1930, i Convegni a Roma degli studenti asiatici del 1933 e del 1934, le pubblicazioni bilingue italiano-arabo come Italia Musulmana, Mondo Arabo e L'Avvenire Arabo, le trasmissioni in lingua araba di Radio Bari dal 1934) e si diffondono movimenti ed organizzazioni arabe,

"L'Avvenire arabo" giornale di propaganda fascista

soprattutto giovanili, fra cui ricordiamo il Partito Giovane Egitto (Hizb Misr al-Fatâ) di Ahmad Husayn e le Falangi Libanesi (al-Katâ'ib al-Lubnâniyya) di Pierre Jumayyûl tra i primi, le Camicie Verdi (al-Qumsân al-Khadrâ') e Le Camicie Azzurre (al-Qumsân az-Zarqâ'), entrambe egiziane, nonché varie associazioni scoutistiche (al-Jawwâla), tra le seconde, che guardano, magari confusamente, al fascismo come modello. In altri casi, invece, il motivo ispiratore era costituito dal nazionalsocialismo: citiamo il Partito Nazionale Sociale Siriano (al-Hizb al-Qawmî as-Sûrî al-Ijtimâ'î) di Antwân Sa'âda, le Camicie di Ferro (al-Qumsân al-Hadîdiyya) a Damasco e ad Aleppo, l'irachena al-Futuwwa, la cui etica traeva origine da quella degli ordini cavallereschi del medioevo islamico. Ma è con gli ambienti delle corti delle entità statali allora indipendenti (spesso solo formalmente) e non con fazioni minoritarie ed estremiste che il fascismo, realisticamente, preferisce intessere relazioni che in special modo sul piano commerciale determinano posizioni di tutto rispetto: lo Yemen dell'imâm Yahyà è un protettorato italiano di fatto (il Trattato d'amicizia e di relazioni economiche del 1926 è rinnovato nel 1937) e buoni rapporti vengono stabiliti sia con Re Fu'âd d'Egitto che con il sovrano dell'Iraq Faysal Ibn Husayn, mentre a riprova dell'importanza degli apporti sanitario e tecnico-scientifico italiani nel mondo arabo basti rammentare la missione medica permanente presso l'imâm dello Yemen, l'Ospedale Italiano di 'Ammân, l'ambulatorio di Jedda e l'assistenza aeronautica fornita ad Ibn Sa'ûd per tutti gli anni Trenta.

Sul finire del decennio e con la guerra poi - quando a tutte queste ottime relazioni gli Alleati impongono ricatti e pressioni - il filo-islamismo del regime mussoliniano, fin lì improntato ad una buona dose di pragmatismo, si fa, per così dire, ideologico (il fascismo come "Islàm del XX secolo" è uno degli slogans coniati in quel clima), ma è solo in sporadiche occasioni (ad esempio la fallita rivoluzione irachena di Rashîd 'Âlî Al-Gaylânî e degli ufficiali del "Quadrato d'Oro" appoggiata dall'Asse nell'aprile-maggio 1941) e comunque con scarsa convinzione, che il fascismo e alcuni settori del mondo arabo-musulmano desiderosi di liberarsi dal controllo franco-inglese riescono ad intraprendere iniziative di un certo rilievo. Tra gli interlocutori arabi di spicco che privilegiarono l'alleanza (più pragmatica che ideologica) tra il fascismo e l'Islàm - mal riponendo tra l'altro le loro speranze in un altrettanto netto rifiuto dell'entità sionista che lentamente ma inesorabilmente andava costituendosi in Palestina - ricordiamo innanzitutto il Gran muftî di Gerusalemme Hâjj Amîn al-Husaynî (1893-1974), fautore di un'impostazione arabo-islamica - e non strettamente nazionale - della lotta di liberazione del Dâr al-Islàm dalle ingerenze straniere, l'emiro druso Shakîb Arslân (1869-1946), uno dei principali esponenti della corrente riformista della salafiyya che a Ginevra dirigeva La Nation Arabe, Muhammad Iqbâl (1877-1938), il padre spirituale del Pakistan, che ebbe parole d'elogio per l'apertura nei confronti dell'Asia suggellata dal Duce con il discorso del 18 marzo 1934 sull'espansione pacifica dell'Italia in Oriente.

Sbaglierebbe poi chi - astraendo dal contesto storico di questa vicenda - individuasse nell'antisemitismo il collante di queste pur vaghe simpatie reciproche: esso non è mai stato proprio né di arabi né di musulmani e per il fascismo, fu il tardivo, minoritario e strumentale frutto dell'alleanza politica con la Germania hitleriana, mentre è spesso taciuto l'atteggiamento ostile che già dal '36 le principali organizzazioni ebraiche dimostrarono nei confronti dell'Italia fascista ed è altresì da ricordare che le comunità ebraiche tradizionalmente residenti in Palestina convivevano pacificamente da tempo immemorabile sia con la maggioranza araba musulmana che con la minoranza araba cristiana.

Che si trattasse di un filo-islamismo ondivago e contraddittorio lo dimostra inoltre la "politica islamica" perseguita dal fascismo in Libia, dove i nodi di quella che spesso appare una strategia volta più che altro a contrastare l'egemonia franco-inglese nel Mediterraneo e a gestire le popolazioni musulmane delle colonie (Libia, Eritrea, Dodecaneso, poi Etiopia e infine Albania) vengono al pettine. Qui l'Islàm è sì incoraggiato - fino al punto da rendere difficile la vita a chi scorse l'occasione di una nuova evangelizzazione dell'Africa del Nord - con iniziative volte al sostegno della vita religiosa locale (restauri e costruzioni di moschee e di scuole coraniche, assistenza per i pellegrini alla Mecca, apertura della Scuola Superiore di Cultura Islamica a Tripoli), ma è soprattutto uno strumento d'ordine, progressivamente costretto alla sfera privata in ottemperanza a quel "date a Cesare" che poco si adatta all'intima essenza dell'Islàm. Anche il fascismo quindi - tra i cui elementi costitutivi è da annoverarsi l'avversione a molti dei principi dell'Illuminismo e ad un certo "progressismo" - in Colonia finì per appiattirsi nella riproduzione della retorica del progresso (dello "sviluppo" diremmo oggi) allestendo la versione in camicia nera della "missione di civiltà", compreso l'imprescindibile bagaglio di "buone intenzioni" insito in ogni impresa d'oltremare. Il viaggio di Mussolini in Libia nel marzo 1937 - un "premio" per un popolo che con i contingenti di ascari aveva dato un contribuito fondamentale alla conquista dell'Impero -, culminato con la consegna al Duce della "spada dell'Islàm", aprì in realtà una nuova e più massiccia fase d'insediamento di coloni italiani sulla "Quarta sponda" ("i Ventimila" del 1938), evento che non poteva non preoccupare i fautori dell'integrità etnica e culturale della Patria araba (al-watan al-'arabî), in primis i contigui nazionalisti tunisini del Neo-Dustûr di Habîb Burghîba, saltuariamente accostatisi al fascismo.

Un giudizio complessivo quindi, deve rilevare che l'azione filo-musulmana del fascismo (o "filo-araba", quando l'elemento "razza" cominciò a pesare di più in seguito all'avvicinamento alla Germania) si risolse soprattutto in un'attività di propaganda e di disturbo (persino l'insurrezione palestinese del 1937-39 non venne sostenuta con particolare entusiasmo) volta ad accaparrarsi la simpatia delle popolazioni musulmane del Mediterraneo, centro di gravità del "rinnovato Impero di Roma", le quali tuttavia - deluse da chi si era mangiato tutte le promesse fatte a suo tempo - scorsero in questi proclami la possibilità di riuscire a condurre a buon fine la lotta di liberazione anticoloniale, poi proseguita nel secondo dopoguerra dai campioni dei panarabismo (Jamâl 'abdel-Nâser ed i suoi epigoni), tacciati di volta in volta - non a caso - dalla propaganda dei loro avversari di "fascismo", se non addirittura additati a nuovi "Hitler".

Ad ogni modo, leggendo i non pochi scritti editi nell'Italia tra le due guerre mondiali nel clima della ricerca di un'"intesa con l'Islàm", si può evincere quanto i toni della polemica (che è bene che ci sia, per carità) sull'odierna presenza islamica in Italia e i timori instillati da chi ha interesse ad agitare ad ogni piè sospinto lo spauracchio dell'"integralismo islamico" siano lontani dall'impostazione data all'epoca alla delicata e fondamentale questione dei rapporti tra l'Italia (e l'Europa quindi) e l'Islàm, tra l'Occidente e l'Oriente.

La copertina del libro di Enrico Galoppini

Per approfondimenti:

Enrico Galoppini, Il fascismo e l'Islàm, Edizioni All'Insegna del Veltro, Parma 2001.
pp. 166, € 12,91.
Viale Osacca, 13 - 43100 Parma -
Tel./ fax: 0521 290880;
E-Mail: insegnadelveltro1@tin.it


La famosa immagine del Duce con la spada dell'Islàm
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