Possiamo vivere con l'Islam?
Il confronto fra la religione islamica e le civilizzazioni laiche e cristiane.
di Jacques Neirynck e Tariq Ramadan
Titolo originale dell’opera: " Peut-on vivre avec l’ Islam" *

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 Capitolo 6

L'Islam in Occidente

JACQUES NEIRYNCK Affrontiamo la situazione più difficile, quella di una comunità islamica minoritaria. In Francia, ci sono quattro milioni di musulmani, essenzialmente maghrebini. In Germania vivono tre milioni di Turchi. L'interpretazione tra le culture, la mondializzazione. moltiplicheranno queste minoranze nei paesi cristiani. Anche se la maggior parte dei cristiani sono apostati, agnostici, indifferenti, i musulmani si troveranno di fronte ad una difficoltà che non hanno mai incontrato: vivere in un paese che non è loro, non riuscire a far coincidere le richieste dell'islam con la legge civile, voler realmente praticare una religione esigente in una società irreligiosa. Potrebbe dire quali sono i paesi nei quali esiste questa situazione e nei quali sorgono problemi? Prendiamo il caso della Francia, per cominciare.

TARIQ RAMADAN Vorrei fare un appunto preliminare perché mi capita spesso di sentire l'analisi che lei propone, che, però, non corrisponde alla realtà storica. Si afferma che l'attuale situazione dei musulmani, in minoranza in un paese, sarebbe qualche cosa di nuovo, mentre questa situazione si è presenta diverse volte nel corso della storia, sia nell'Africa Nera che in Asia. Pensatori musulmani hanno già dovuto considerare la realtà della loro presenza in una società nella quale non erano in maggioranza. In India, ad esempio, la riflessione giuridica è andata molto in là ed in modo costruttivo. In tempi assai vicini a noi, negli anni Quaranta e Cinquanta, le prese di posizione contraddittorie di Mawdudi e di Nadawi sull'argomento ne sono un esempio.

J.N. Se posso interromperla su questo punto in particolare, la divisione dell'Impero britannico tra Pakistan e India è proprio un risultato delle difficoltà che sono sorte dal giorno dell'indipendenza.

T.R. Lei ha ragione ma quello che volevo mettere in evidenza, come preambulo, è che la riflessione, direi quasi "l'attitudine intellettuale", che è il prodotto di una situazione di "presenza minoritaria", non è per nulla nuova. Sapienti, prima di noi, hanno riflettuto a proposito e si sono dedicati a dare accenni di risposte.

Una situazione nuova in seno agli Stati di diritto

Resta il fatto che, tuttavia, c'è qualche cosa di originale nella nostra nuova presenza in Occidente, negli Stati Uniti ed in Europa. Noi ci iscriviamo tra gli Stati di diritto e diventa necessario pensare non solo al posto dove possiamo trovarci ma soprattutto alla natura della nostra partecipazione attiva come membri a pieno diritto di queste società. Riassumendo, bisogna sottolineare che le situazioni sono molto diverse, non foss'altro che in Europa. La Francia che conta il numero più importante di musulmani, pensa alla loro integrazione in modo molto diverso dall'Inghilterra, dal Belgio, dalla Svezia o dalla Germania. Questa diversità si fà più complessa per via della natura della popolazioni in questione. La storia e la cultura maghrebine, della quale sono originari la maggior parte dei musulmani che si trovano in Francia o in Belgio, sono molto diverse da quelle degli indo-pakistani che abitano in Inghilterra, ed entrambi differiscono dai tratti culturali turchi che si trovano in grande numero in Germania, ad esempio. Si deve pensare globalmente, ma si devono differenziare gli approcci. Comunque si avrebbe la tendenza a pensare che la questione è puramente di ordine religioso e/o culturale. Bene, non lo è, e ancora una volta bisogna fare attenzione alle semplificazioni.

Tanto per cominciare, si possono distinguere tre livelli d'analisi: il primo riguarda il processo di immigrazione propriamente detto che esige uno studio specifico tenendo conto della natura delle popolazioni nate dalle immigrazioni. E' importante classificare in modo molto chiaro la specificità dei problemi legati a questa immigrazione ed alla sua evoluzione. Credo che non si possa fare a meno di queste analisi differenziate per comprendere la situazione, a meno che non si voglia continuare a presentare le cose in modo conflittuale, a meno che non si sappia con certezza che è un problema di scontro di religioni e civiltà. Ora, la questione è molto più complessa. Si tratta sia di una questione sociale che economica, alle quali vengono ad aggiungersi certamente i problemi dell'identità religiosa e culturale.

Il secondo livello deve riguardare il modo in cui i musulmani stessi considerano il loro ambiente circostante. Un'analisi approfondita mostrerà che la loro percezione e la loro valutazione sono cambiate nel corso delle generazioni. I primi migranti si consideravano di passaggio, qualche generazione dopo i loro figli si sentono europei, a casa loro, membri dell'unica società che conoscono. La memoria dell'esilio non abita più in loro e il loro modo di vedere cambia, naturalmente.

Il terzo livello dell'analisi è una conseguenza diretta del secondo. Dal momento che lo sguardo sull'ambiente è cambiato e che non ci si sente più "di passaggio", allora diventa necessario rivisitare le fonti scritte per pensare alle tappe dell'adattamento giuridico. Si tratta di coordinare una tripla integrazione: dell'identità, per restare fedeli alla propria coscienza in un contesto nuovo; legale, per determinare il tipo di rapporto che si deve stabilire con la legislazione di un dato paese; sociale, per fissare le possibilità di un impegno autentico e globale del cittadino. Intendo "sociale" in senso ampio ed estensivo, includendo il problema della partecipazione politica ed economica. In altri termini, questo terzo livello pone chiaramente il problema fondamentale: come restare fedeli nell'evoluzione, o formulato in modo diverso, come evolvere in un contesto nuovo restando fedeli alle prescrizioni della propria fede?

J.N. Riprendiamo uno per uno questi tre livelli.

Tre livelli di integrazione

Il primo sottolinea giustamente in modo forte che le difficoltà di adattamento delle popolazioni maghrebine in Francia derivano dalle detestabili condizioni nelle quali si è compiuta l'immigrazione. E' una manodopera non qualificata, sotto pagata, relegata nei ghetti. Parla una lingua diversa e non capisce bene il francese. C'è già a questo livello una differenza rispetto alle altre immigrazioni in Francia. C'è stata un'immigrazione italiana di lunga data, che si è completamente fusa al punto che, in Francia, non si sa più che Yves Montand o Colouche erano originariamente italiani. Gli Italiani sono in verità molto vicini ai Francesi come origine, perchè parlao una lingua latina. Ma si può osservare la stessa assimilazione per i Polacchi, immigrati in massa prima o dopo la Seconda Guerra, quando sono stati cacciati dall'esercito russo, o per gli Ungheresi che sono fuggiti nel 1956 dal loro paese. La Francia è per definizione un paese d'immigrazione, aperto a tutti i venti. Una regola demografca molto semplice dice che un Francese su quattro ha almeno un nonno non Francese.

Tanto gli altri Europei di tradizione cristiana si sono dissolti nella massa rapidamente ed alcune famiglie si sono spinte nella gerarchia politica - Balladur è di origine armena, Poniatowski è di origine polacca, Sarkozi è di origine ungherese - tanto la comunità maghrebina pare bloccata nel suo processo di assimilazione dalla sua pratica religiosa. La Francia è un paese che ha trasformato la laicità in religione e che è dunque estremamente ostile a qualsiasi manifestazione esteriore della religione. E' solo in Francia che si sono fatti soprusi nei confronti delle giovani musulmane che portavano il foulard islamico. Altrove, non è nemmeno stato notato. E' quindi il fattore religioso che rende l'assimilazione più lenta?

T.R. E' chiaro che il fattore religioso rende le cose più complesse ma prima di entrare in considerazioni legate alla religione, consideriamo oggettivamente un certo numero di fatti. Si guadagnerà molto in chiarezza ricordando delle cose in fondo molto semplici. La presenza dei musulmani, come noi la conosciamo oggi, è molto recente. Per la stragrande maggioranza, possiamo stimare che risalga a cinquanta, sessanta o ottant'anni fa al massimo. Quando si tratta di considerare l'integrazione di un popolo in un nuovo contesto, una sequenza temporale di mezzo secolo è molto breve. Lei ha parlato degli Italiani o dei Polacchi, si potrebbero aggiungere i Portoghesi o gli Spagnoli. Ci sono volute generazioni per questi popoli per "integrarsi" e si vorrebbe che la stessa cosa si facesse dall'oggi al domani con i musulmani per i quali il fattore religioso e culturale è necessariamente un indice di complessità supplementare.

Che dire delle popolazioni protestanti ed ebraiche? Quante generazioni ci sono volute perché "vivere insieme" fosse possibile? Ricordiamoci di queste cose e vedremo che il fenomeno è malgrado tutto molto recente. Questo ci permetterà di valutare col giusto metro la rivoluzione che si è compiuta nelle mentalità musulmane negli ultimi quindici anni e che promette un'evoluzione interessante nel prossimo futuro. Ricordiamo anche un fatto importante: le popolazioni musulmane che sono venute in Europa, per ragioni essenzialmente economiche, non avevano mezzi, erano povere, poco istruite. La loro prima reazione era di chiudersi in loro stesse, di proteggersi e di vivere un po’ al margine di una società che non consideravano come la loro. Un giorno, pensavano, ripartiremo. Spesso ci sono voluti venti o trent'anni affinché si rendessero conto che la loro vita e quella dei loro figli, sarebbe trascorsa in Europa. Una presa di coscienza difficile, lunga, spesso lacerante. I primi migranti non hanno cercato inizialmente di spiegare, di interagire col loro ambiente: essi pensavano a proteggersi e la loro situazione sociale ed economica aumentava il processo di marginalizzazione già così naturale. Questa prima generazione di musulmani non aveva né la voglia né i mezzi per spiegare e dialogare. Nulla ve li spingeva: il loro modo di vivere era la discrezione. E poteva essere altrimenti?

Poco a poco hanno cominciato a costruire delle moschee, le famiglie si sono raggruppate ed i figli sono cresciuti. La discrezione di ieri ha lasciato il posto in modo naturale alla visibilità di oggi. E' a questo punto, del resto, che la questione dell'islam è diventata un problema: ieri invisibili ed oggi ecco che chiedono luoghi di preghiera, cimiteri, carne halal e si distinguono per il loro abbigliamento. Il primo malinteso inizia proprio da qui.

Dall'esterno, le nuove richieste dei musulmani sono state considerate come un rifiuto d'integrazione, mentre si trattava, nel loro spirito, esattamente del contrario: tutte queste richieste coincidevano con la presa di coscienza e l'accettazione, esplicita o implicita, che dovevano integrarsi nel loro nuovo ambiente e trovare i mezzi per sentirsi bene qui, a casa loro. Rispondere alle vicissitudini del loro destino voleva dire adeguare uno spazio di benessere per la loro identità musulmana, nel nuovo contesto europeo. Si trattava di una tappa e di un chiaro avvio all'integrazione. Mi pareva che dovessimo ricordare questi fatti.

Bisogna anche dire che, quando due popoli si incontrano, nella situazione che descriviamo qui, gli screzi e le tensioni sono normali. È necesario affrontare il problema con maturità e rifiutare l'angelismo, sia da una parte che dall'altra. Si deve prendere il tempo di conoscersi, di parlarsi, di avere reciproca fiducia. A voler andare troppo in fretta, rischiamo di andare indietro e, - nelle nostre speranze irrealiste, saremmo responsabili dell'acredine- amarezze e dei dubbi dai quali il nostro slancio iniziale ci aveva inizialmente protetti. Bisogna tenere i piedi a terra, tener conto del tempo, delle evoluzioni delle popolazioni interessate e dei malintesi dei quali nessuno a volte è responsabile. Bisogna vestirsi di una certa saggezza: essa ricorda le cose semplici e ci evita di cercare dei colpevoli quando, semplicemente, si tratta di gestire dei problemi umani, molto umani, semplicemente umani. Cioè complessi e delicati.

Consideriamo anche le acquisizioni e vedremo che esse sono numerose. I figli della seconda, terza e quarta generazione hanno raggiunto livelli di studio importanti, interagiscono col loro ambiente, si sentono a casa loro, lo spiegano e lo dicono. Sono voci nuove, esistono e promettono un avvenire meno ombroso se sceglieremo, insieme, la via del dialogo sereno e responsabile. C'è un'acquisizione che, a prima vista, potrebbe essere considerata uno scoglio, la realtà di una sconfitta: è l'espressione del disagio stesso. Un sempre maggior numero di giovani e meno giovani esprimono in Francia, in Germania, in Inghilterra e altrove in Europa il malessere. In un modo o nell'altro esprimono la loro sofferenza ed il loro isolamento. Si sono visti poco i genitori, si vedono troppo i figli e li si giudica. In fretta, troppo in fretta. Credo che "esprimere il disagio" sia la prima tappa, necessaria, per pensare insieme a risolvere questo malessere.

Le cifre parlano da sé: il 60% dei carcerati di Bruxelles sono di origine maghrebina, sarebbero il 25% su tutto il territorio francese e siamo a circa il 30% in Inghilterra. Non si può restare ciechi di fronte a queste realtà. Non si tratta dell'islam propriamente detto, il problema è più complesso perché vi si mescolano il divario sociale, la disoccupazione endemica, l'esclusione ed il fattore religioso e culturale. Il discorso ambientale in Europa sull'islam ed i musulmani non fa che aumentare il sentimento di rifiuto e marginalizzazione: "povero, disoccupato, escluso e musulmano" è percepito come un'addizione, un cumulo di difetti. Bisogna circoscrivere e distinguere ciascuno di loro, questo va da sé, ma si deve pensare anche ad un approccio globale. Voler regolare l'aspetto sociale negando quello religioso o culturale, voler fare evolvere le mentalità senza preoccuparsi delle auto-rappresentazioni ferite, accanirsi nel voler integrare l'abbigliamento disintegrando i cuori è un controsenso. Affrontare i problemi separatamente, rendersi conto che non si tratta di un problema esclusivamente religioso e culturale, pensare a strategie differenziate di riforma è l'imperativo, ma ciò non sarà possibile se non quando si sarà capita più globalmente la questione con l'idea di favorire una società che arricchisca il suo pluralismo politico, già acquisito, con un vero pluralismo religioso e culturale. Tutto sommato si tratta di pensare ad un progetto di società.

L’assenza di rappresentanza

J.N. Ci si arriverà. Poiché abbiamo parlato di visibilità, bisogna notare una singolarità della comunità musulmana in Francia. Essa non ha una rappresentanza a livello nazionale. Non che il governo francese rifiuti di riconoscerla, ma si hanno difficoltà a trovare degli interlocutori. E' una situazione molto diversa da quella della Chiesa cattolica, completamente legata ad una struttura molto gerarchizzata in cui esiste la Conferenza dei vescovi. Lo Stato francese può ovviamente rivolgersi al presidente di questa Conferenza nel momento in cui sorgano dei conflitti tra la Chiesa cattolica ed i poteri pubblici su argomenti come l'aborto, l'accoglimento degli immigrati irregolari o il PACS.[1]

Allo stesso modo le Chiese riformate di Francia sono riuscite a raggrupparsi ed a rappresentare un'unità rispetto al mondo esterno. La stessa cosa vale per il grande rabbino che rappresenta validamente tutto il giudaismo.

Ma che cosa succede con l'islam? I mezzi di comunicazione prendono generalmente come interlocutore in Francia il rettore della moschea di Parigi. Ma c'è sempre un'incertezza: questo imam particolare rappresenta bene tutti i musulmani in Francia o per lo meno la loro maggioranza? Da dove deriva l'incapacità dei musulmani di presentarsi uniti di fronte al potere, dato che questo rappresenta un fatto di notevole importanza? Sono lotte interne? E' il rifiuto di volersi organizzare? Ciò che abbiamo scoperto nelle nostre esposizioni precedenti è che l'islam non è una gerarchia centralizzata. E' una religione estremamente decentralizzata. Ma anche così, non potrebbe organizzarsi meglio in seno alla Francia laica e repubblicana per affermarsi e difendersi meglio? Non può infischiarsene impunemente del ruolo delle istituzioni e della concertazione tra notabili. Nessuna religione può impedirlo ai suoi rappresentanti senza scegliere una forma di suicidio.

T.R. Il problema della rappresentatività è effettivamente un problema centrale e dappertutto in Europa sembra porsi la questione: i musulmani possono organizzarsi, visto che dappertutto imperversa la divisione e il caos. Bisogna dunque porre le questioni nel loro ordine e cercare risposte circostanziate.

La questione della rappresentatività preoccupa oggi i poteri che vogliono avere degli interlocutori credibili, come alcuni musulmani che coltivano "l'attrazione dei vertici" e la voglia di rappresentare i musulmani ed i loro rispettivi paesi. A mio avviso, tutte queste discussioni, dibattiti e chiacchiere sulla rappresentatività dei musulmani sono malsane e rivelano intenzioni poco chiare da una parte e dall'altra. Per ciò che mi riguarda, la questione della rappresentatività è molto importante ma non prioritaria. I musulmani sono lì da qualche decennio e solo recentemente una parte di loro ha preso coscienza di che cosa sia l'organizzazione dell'islam in Europa, con le sue modalità, le sue tappe, i suoi obiettivi. E si vorrebbe già che fossero organizzati e che i loro rappresentanti fossero designati. E' illusorio.

Ora, di due cosa l'una è che si pensa che il rappresentante debba essere designato dai musulmani e allora bisogna attendere che si realizzi la presa di coscienza alla base, la partecipazione locale fino all'organizzazione del vertice (il principio islamico è chiaro, come lo è il principio democratico: colui che si mette davanti è scelto da coloro che stanno dietro); l'altra è che per ragioni politiche inconfessabili, si è pressati a risolvere il problema e allora l'alternativa si risolve in un gioco tra il potere che vuole decidere dei propri interlocutori e alcuni attori musulmani che si proclamano rappresentativi. Queste ultime due soluzioni sono sicuramente le peggiori; prima di tutto, perché nessun potere deve immischiarsi negli affari dei musulmani né decidere chi va "bene" e chi no; e poi, perché i rappresentanti auto proclamati, ed i notabili dell'islam, chiaramente non hanno nessuna legittimità e sono spesso legati a poteri stranieri e questo non è più accettabile. Su questo punto, i principi devono essere molto chiari: l'islam in Europa è la realtà di una doppia indipendenza sulla quale non si deve transigere: indipendenza politica e finanziaria. E' il rifiuto esplicito e definitivo di qualsiasi ingerenza dei poteri stranieri nella gestione dell'islam in Europa, in Marocco, allo stesso modo che in Algeria, Turchia, Tunisia, Arabia Saudita, Iran o altri. Il denaro che serve a comprare i silenzi ed i compromessi, dobbiamo rifiutarlo. I musulmani d'Europa devono andare verso questa totale autonomia che, per estensione, è anche un'esigenza di indipendenza chiara rispetto agli stati europei stessi.

Non mi interessa molto sapere oggi quale musulmano deve stringere la mano del Consigliere di Stato, del Primo Ministro o del Presidente della Repubblica di questo o quel paese. Tutti sembrano obnubilati da questa domanda in Francia: chi sarà ricevuto dal presidente al momento della cerimonia dei voti? Personalmente non me ne preoccupo e, a dir la verità, la questione della rappresentatività è molto più importante di questi aspetti di protocollo.

Priorità alla rappresentanza locale

Penso che oggi si debbano distinguere diversi livelli di rappresentatività e, prima di angosciarsi per il vertice, di preoccuparsi del livello locale e regionale, perché alla fine è spesso a questo livello che si possono già risolvere numerose questioni di gestione. Io non vedo che una sola via davvero ragionevole ed onesta sul piano della legittimità: creare, a livello delle città, piattaforme che comprendano i rappresentanti di diverse moschee e/o associazioni islamiche attive sul terreno locale e trattare di questioni relative all'islam in un consiglio pluralista ed aperto. Lo scopo di queste piattaforme o consigli non deve essere la rappresentazione o il "potere". In un primo tempo bisogna cercare di risolvere insieme problemi molto concreti: luoghi di culto, elemosine, carni, cimiteri ed altri.

Tutto ciò può essere fatto già a livello delle città e delle regioni, non c'è bisogno di una rappresentanza nazionale per risolvere tutti i problemi dell'islam e la maggior parte delle questioni più urgenti possono risolversi alla base. Bisogna dunque che le personalità politiche locali si assumano le loro responsabilità e dialoghino con le associazioni attive sul loro terreno con la preoccupazione di associarle ad una riflessione, non alla scelta dei rappresentanti. Sono i problemi concreti che devono riunirli attorno ad un tavolo e non il potere e l'interesse finanziario. Sul piano locale, i musulmani devono allo stesso modo assumersi le loro responsabilità ammettendo di essere raramente gli unici rappresentanti sul terreno e preoccupandosi soprattutto di risolvere le situazioni specifiche e non di cercare di arrivare al vertice. Noi dobbiamo passare attraverso questa esperienza di partecipazione e di dibattito a livello locale; è una scuola di pluralismo e di sana gestione che rispetta il principio fondamentale di scelta della base. La vera legittimità riposa su tre principi: presenza sul terreno, competenza, riconoscimento da parte della comunità. In un periodo più o meno lungo, si disegneranno delle tendenze di cui bisognerà tener conto, ma lasciamo tempo che le coscienze si formino, che si pensi allo spazio locale e ad organizzarsi nel rispetto del pluralismo.

Non si vogliono più guerre tra notabili da parte di Stati immischiati con, soprattutto, il potere locale, francese, tedesco o belga, che intervengono nei processi di scelta in flagrante contraddizione con i principi della costituzione degli Stati laici. Si dice una cosa e se ne fa un'altra per preservare gli interessi politici. Bisogna sapere quello che si vuole: una rappresentazione di musulmani scelta dai musulmani del paese in questione o una messa in scena dietro le cui quinte si nascondono i poteri e alcuni loro alleati algerini, turchi, marocchini o sauditi. Ancora una volta mi oppongo a questi giochetti politici e non posso concepire altro che una rappresentazione politicamente e finanziariamente indipendente, rispettosa del consenso, necessariamente pluralista, della base. Chiedo dunque che ci venga concesso del tempo; non si organizza un processo elettorale fondato su un autentico pluralismo in "due tempi, tre movimenti". A meno che non lo si metta in scena. Prendiamo il nostro tempo e prima di tutto responsabilizziamo i musulmani a livello locale. Al protocollo arriveremo dopo.

Recentemente c'è stata una prima elezione in Belgio. Sono state organizzate in fretta ma una maggioranza di musulmani si è iscritta nelle liste. Alla fine pare che circa il 50% abbia partecipato effettivamente al voto. Il governo si è assunto tutte le responsabilità al fine di preservare il diritto di controllare i risultati. Si può considerare questo tipo di procedura come una prima tappa che parte dalla base ( anche se il potere si è intromesso molto nel corso delle elezioni). Il sospetto è forte e alla fine si è affermato che gli "integralisti" si erano infiltrati ed avevano pericolosamente vinto le elezioni. Del resto si sapeva che il potere belga doveva tener in gran conto la sensibilità marocchina e in misura minore Tunisi ed Algeri. Che cos'è allora questa gestione? Chi decide di che cosa? E a partire da dove? E' sufficiente che qualche politico agiti lo spettro dell’ "islamismo rampante" perché tutti i musulmani di un paese vengano sospettati rispetto alla loro scelta e alla loro sincerità. Non credo che si possa arrivare a niente di buono con la fretta. Dobbiamo osservare l'evoluzione del Belgio. Conserviamo la speranza ma, in ogni modo, questo modello non è "esportabile" perché il Belgio è un paese piccolo.

Per concludere, penso che dobbiamo cominciare dalla base e riflettere a lungo termine. In ogni circostanza, bisogna reinstaurare la cultura del dialogo infra-comunitario tra i musulmani. Il piano locale è lo spazio migliore. Se, tuttavia, si constatasse sul piano nazionale che le decisioni hanno bisogno di una rappresentanza, se non altro temporanea o circostanziata, non vedo comunque altre vie che quella di creare una piattaforma che riunisca più associazioni di portata nazionale per risolvere puntualmente i problemi. Domani, i musulmani anche se non saranno totalmente uniti, riusciranno, penso, a fare una scelta fondata sulla legittimità. Sempre che si rispettino i principi della laicità, ovvero di non intromettersi nei loro affari e di non cercare continuamente di dividerli... per comandare meglio. I principi pertanto sono chiari: scelta della base, indipendenza politica e finanziaria, pluralismo rispettato e competente dei rappresentanti. Ci vuole tempo.

Il rispetto della comunità

J.N. Chiedere una rappresentanza dei musulmani è dunque mettere il carro davanti ai buoi. Quando anche la comunità è in fase di cambiamento e, poco a poco, si sta adattando al paese, non si può supporre che questo lavoro sia già fatto e che esistano già dei rappresentanti naturali. Bisogna prima concepire l'inserimento, un inserimento simpatetico e accettabile dei musulmani nel paese. E' un lavoro che si sta facendo adesso.

T.R. In modo straordinario. Dappertutto, in tutti i paesi europei che ho potuto visitare, la presa di coscienza avanza e le cose cambiano. In Francia, in Belgio o in Inghilterra, i quadri associativi insistono sulla partecipazione dei musulmani a tutti i livelli: gestione delle associazioni, progetti di solidarietà ma anche in seno alla partecipazione cittadina. In Inghilterra è stato elaborato un opuscolo sul voto, su questi obiettivi, sull'importanza di impegnarsi nella vita collettiva; in Francia e in Belgio se ne parla in continuazione e ci si prepara. Tutte queste iniziative sono volte a forgiare un'identità musulmana matura, adattata al contesto e pluralista.

Gli interventi dei poteri provocano più divisioni che un reale progresso riguardo alla rappresentatività, al punto che c'è da chiedersi se non ci sia dietro una strategia politica che consiste nel porre una questione sensibile atta a far perpetrare la divisione. E a far cadere i musulmani nella trappola. Bisogna sapere quello che si vuole, il potere o l'armonia. Quest'ultima richiede di essere realizzata a tappe; essa esige soprattutto che noi rispettiamo un certo numero di principi, al primo posto dei quali c'è il rispetto della comunità. Coloro che vogliono parlare in nome dei musulmani fondandosi su principi elitari e autodefinendosi sapienti, hanno il difetto di essere staccati dalla base. A che valgono le loro parole anche se tutte le televisioni del mondo gli aprono i loro palcoscenici? Questi ultimi, che si nascondono dietro i governi, sono nascosti molto male e nascondono molto male lo scenario della messa in scena. A volte si assiste a dibattiti e gestioni molto penose. Non ci tengo assolutamente a farne parte. Io so soltanto una cosa oggi: nessuno ha il monopolio della rappresentazione legittima e val meglio formare, educare, invitare alla partecipazione alla base e localmente piuttosto che scannarsi per una sedia al vertice.

Le dinamiche associative attuali che ho potuto vedere in un certo numero di paei europei sono molto interessanti, siamo sulla strada giusta. Sa, credo che alla fine, il processo di rappresentatività accompagnerà la dinamica della cittadinanza; e non è poi tanto male. I musulmani sempre più prendono coscienza della loro responsabilità di partecipazione. Il caso recente del Belgio, del quale abbiamo parlato, è una prima tappa che manifesta la realtà del numero e della massa: la gran parte dei musulmani hanno sentito che la cosa li riguardava. I piani di sviluppo che si sono pensati in quell'occasione sono un primo passo.

Domani, si dovrà avere per obiettivo la realizzazione della trilogia: presenza, indipendenza, cittadinanza. Anche se la libertà che un tale progetto ci dà può creare qualche disturbo o sembrare addirittura pericolosa, sia per i poteri stranieri che per i governi europei che vogliono avere il dominio delle dinamiche di base ( quando invece la loro Costituzione spesso non gliene dà il diritto... ) ebbene, malgrado tutti questi ostacoli, non vedo altre vie trasparenti e legittime. L'obiettivo è chiaro, i mezzi per arrivarci non sono meno espliciti e la resistenza, alle ragioni di Stato e ai tentativi di prezzolare persone che non mancano di presentarsi, deve restare ferma e determinata.

J.N. Dovrebbe essere molto chiaro per i musulmani senza unità che le altre confessioni hanno sempre avuto, grazie alla loro rappresentanza, influenza sulla politica e che sono state influenzate dalla politica. In Francia, i cattolici, se sono integralisti, arriveranno a votare persino Le Pen. Al contrario, il partito comunista o, un tempo, il partito socialista sono partiti nei quali i cattolici non si sentono molto a loro agio. In ogni caso, i cattolici meno dei protestanti. Non ci si può astrarre da questo legame consustanziale tra religione e politica. E' assolutamente inevitabile. Anche negli Stati Uniti, benché ci sia una netta separazione tra lo Stato e le Chiese prevista dagli articoli della Costituzione, i democratici speculano sul voto degli ebrei, che è estremamente importante. Israele semplicemente non esisterebbe se questo voto non avesse un tale peso. Perciò, la collusione tra poteri politici e religiosi oltrepassa necessariamente l'aneddoto locale, l'arte surrettizia di pagare il clero e di riparare i tetti dei luoghi di culto. E' una cosa inevitabile della quale bisogna tener conto. Ed è proprio l'argomento che stiamo trattando. Passiamo al secondo livello di lettura della loro situazione da parte dei musulmani.

Lo spazio della guerra non esiste più

T.R. Per lungo tempo si è fatto riferimento, negli scritti musulmani, ai testi classici che dividono il mondo in dar al-islam, la "dimora o spazio dell'islam", nel quale i musulmani erano la maggioranza, del quale possedevano il suolo e sul quale legiferavano. All'esterno c'era dar al-harb, letteralmente la "dimora o spazio della guerra", che era potenzialmente lo spazio del nemico in cui il musulmano non era al sicuro. A questa visione binaria si aggiungeva un terzo concetto che, del resto, non rimetteva in causa la descrizione bipolare del mondo: si tratta di dar al-sulh, lo "spazio della pace" all'esterno, che prende questa denominazione poiché è stato firmato un patto con uno Stato che impedisce la guerra. Questa lettura risale al X e XI secolo. E' l'esatta lettura della situazione geostrategica dell'epoca in materia di conflitto e di sicurezza interna. Di fatto, una separazione di questo tipo era comprensibile e legittima.

Oggi le cose sono cambiate, la nozione di dar al-harb è caduca e non riflette assolutamente una situazine di insicurezza per i musulmani. Nel mio libro Essere un musulmano europeo spiego che spesso siamo più al sicuro in un paese europeo che nei paesi a maggioranza musulmana. Inoltre, la precisa analisi giuridica degli altri criteri, mostra che, per lo più, non sono più operativi. La visione binaria, che recentemente suffragava il rifiuto, sta dunque per cambiare ed i musulmani a poco a poco prendono coscienza che è legittimo, islamicamente parlando, essere parte beneficiaria della loro società europea. Si tratta di una prima rivoluzione delle mentalità che si fonda sulla lettura giuridica poi sull'apprezzamento psicologico. Non è poco aver superato l'antica divisione!

J.N. Si può dire che anche la cristianità ha vissuto questo stato. Charles Mortel, Jean Sobieski, Don Juan d'Austria hanno tentato di difendere le frontiere del mondo cristiano a Poitiers, Vienna e Lepanto. Quindi direi che, per riassumere e semplificare, le due maggiori entità culturali si sono comportate nello stesso modo.

T.R. Sì, ma grazie a Dio le cose sono cambiate. Bisogna dire che i concetti non sono né coranici né tratti dalla tradizione del Profeta. Nell'analisi del mondo e più che in ogni altro luogo fuori dai paesi di tradizione islamica, l'ijtihad del quale abbiamo già parlato è necessario e dobbiamo impegnarcisi. Molti musulmani si chiedevano, fino a non molto tempo fa, se potevano abitare in Europa: oggi le cose sono più chiare e l'elaborazione giuridica si è adattata al nuovo stato di cose che riguarda ormai milioni di musulmani in Occidente.

Alcuni sapienti hanno pensato a nuovi concetti come dar ad-da'wa, lo "spazio della predicazione", per parlare dell'Occidente. Da parte mia, ho proposto la nozione di dar ash-shahadah, che vuol dire "la casa o lo spazio della testimonianza". La nozione è centrale nell'islam e si riferisce in modo chiaro ad un atto fondamentale della presenza musulmana: essere testimone davanti alla gente, a fortiori nell'epoca della mondializzazione. L'importante è sottolineare l'evoluzione nella ricerca e nelle mentalità.

L'altra dimensione che è anche più chiara, salvo per certi gruppuscoli radicali, è il fatto di rispettare il quadro legale del paese nel quale ci troviamo. Il musulmano considera che sia un tacito contratto morale con la società nella quale vive e non dovrebbe porsi la questione di tradirlo o di barcamenarsi. Facendo un'analisi, si osserva che la maggior parte delle situazioni problematiche possono essere risolte senza scontri. Per i casi molto specifici nei quali il musulmano è nell'obbligo di sottomettersi ad una prescrizione che non corrisponde alla sua religione , si dovrà studiare caso per caso le modalità di un adattamento di tipo giuridico. La flessibilità del diritto musulmano in materia di necessità o di situazione d'eccezione è importante e si ha il dovere di usare questi strumenti.

Con tutto ciò, la comprensione della nostra situazione si è evoluta notevolmente: si comincia a sentire che ci si può considerare "a casa propria". La sicurezza è garantita, il diritto è primario e nessuno ci può inpedire di vivere, praticare e testimoniare la nostra fede. Come ogni cittadino e residente si rispetta la Costituzione ed il quadro legale. Quanto ai casi marginali per i quali si troverebbe un'opposizione tra il quadro legislativo e la propria coscienza, ebbene, si dovrà valutare il livello di priorità. Se veramente c'è incompatibilità, perché questo si oppone alla nostra coscienza, allora, al limite c'è, come del resto per ciascun cittadino, un diritto che si rifà alla "clausola di coscienza" e che permette a ciascuno di dichiarare: in coscienza, io non posso farlo. Si osserva, a livello di analisi e di esperienza, che una situazione di questo tipo, rispetto alle costituzioni europee, è praticamente inesistente, in ogni caso per ciò che riguarda la vita quotidiana.

Il conflitto tra poligamia e diritto europeo

J.N. Prendiamo un esempio preciso per esser concreti. Venendo da paesi in cui la poligamia è legale e nei quali essa è accettata dal Corano, vivendo effettivamente in situazione di poligamia - può essere il caso dei Malesi o dei Sudanesi - essi incontrano problemi inestricabili nel momento in cui iniziano a vivere sotto l'impero del diritto civile francese. E non parlo solo del diritto: si può sempre dichiarare una moglie legittima, diventando l'altra concubina. Ma questo pone dei problemi di successione che sorgono regolarmente, che diventano irrisolvibili, che sono fonte di gravi ingiustizie, poiché una o più delle mogli non erediterà assolutamente nulla.

Se è conscio della serietà della situazione, un musulmano che è poligamo in buona fede perché questa è la tradizione culturale del suo paese, deve rifiutarsi di stabilirsi in Francia? E' necessario che comprenda che la sua fede entra in conflitto pratico con il diritto del paese d'adozione e che tale conflitto è irriducibile al punto di escludere ogni compromesso accettabile per le due parti?

T.R. Se è già impegnato, come nel suo esempio, in una vita poligama, deve fare la scelta o di non stabilirsi in Francia o di chiarire la situazione per essere in regola col diritto del paese in cui risiede. Detto questo, bisogna aggiungere che alcuni sapienti hanno sottolineato che, se un uomo ha una moglie riconosciuta davanti alla legge del paese e che egli protegge come si deve l'altra sua sposa ( a livello di contratto islamico, anche se questa è considerata una concubina dal diritto del paese europeo), la situazione è acettabile poiché si tratta di un adattamento pragmatico che non è un reale tradimento della legge. Si sono ricordate queste situazioni nel caso di alcuni diplomatici musulmani provenienti da paesi molto ricchi. Sono spesso avvocati di paesi europei che li hanno consigliati ed orientati verso questo tipo di adattamento. Alcuni sapienti musulmani hanno elaborato il loro parere sull'ampiezza di interpretazione che questo tipo di gestione pragmatica permetteva.

Da parte mia, queste situazioni mi creano un pò di imbarazzo e penso che ci si debba mettere d'impegno per trovare soluzioni che, nel rispetto del diritto, non ledano la persona e comunque, quando la poligamia è già effettiva, né l'una o l'altra delle mogli. E' in casi del genere che per i musulmani bisogna pensare anche alla formulazione di fatwa, che sono in effetti disposizioni giuridiche circostanziate. La fatwa, l'elaborazione di un parere giuridico per casi molto specifici, è lo strumento sul quale si baserà il dinamismo dell'adattamento dei musulmani in Europa. Ma ciò si deve fare con competenza e circospezione. Bisogna notare, tuttavia, che per l'esempio che lei cita, si tratta di casi eccezionali; prima di tutto devono interessarci altri campi per trovare soluzioni adeguate che riguardano una maggioranza di musulmani.

J.N. Non si può proprio cambiare la legge in materia di successione. Qui la cosa è estremamente chiara. A meno che un erede o una erede decida di fare un regalo a qualcun'altro della famiglia. E ancora! I doni manuali per essere legali devono essere registrati ed entrano a far parte del prelievo d'imposta.

T.R. La situazione di cui lei parla è interessante perché rivela ciò che i musulmani possono e devono intraprendere per il futuro del loro insediamento in Europa. Il diritto nei diversi paesi europei non è unico né chiuso, offre un margine d'interpretazione o d'applicazione. Inoltre, esistono disposizioni riconosciute dalla legge alle quali i musulmani possono ricorrere per gestire le loro rispettive situazioni nel modo più vicino alla loro coscienza. La gestione dell'eredità secondo il diritto dei paesi europei permette di decidere relativamente alle modalità della distribuzione o del semplice dono. Per il musulmano questo implica un lavoro di approssimazione e di adattamento nei limiti di ciò che la legge gli permette fino ad arrivare il più vicino possibile agli insegnamenti della sua fede.

Spesso ci si rende conto che c'è solo una contraddizione apparente e che il lavoro d'adattabilità a partire dalle aperture offerte dalla legge - in materia d'interpretazione, di applicazione possibile o di stretta giurisprudenza - offre spunti interessanti. Per il futuro, sarà compito dei giuristi musulmani pensare alle modalità di questi adattamenti particolari lavorando per tappe e sui diversi campi del diritto: dal contratto di matrimonio, all'eredità, fino al campo della finanza e del commercio. Siamo solo agli inizi. Si cominicia appena a riflettere sui contratti, di matrimonio per esempio, che rispondano alle norme islamiche rispettando le leggi del paese di residenza: si lavora alla formulazione, ai termini dell'accordo, alle clausole ed alle condizioni. E' un'impresa di grande portata che mostra segni molto promettenti per pensare ad "un'integrazione dal punto di vista giuridico"; questo non potrà mancare di realizzarsi come è avvenuto in altri continenti quali l'Asia per esempio.

La nostra nuova situazione ha provocato una sorta di entusiasmo sul piano della lettura giuridica, ma necessita di una buona conoscenza della legge dei rispettivi paesi e siamo ancora molto lontani a questo proposito. Dobbiamo diventare musulmani, cittadini di uno Stato nel vero senso del termine. Diventeremo allora cittadini come tutti gli altri, cioè francesi, belgi, svizzeri musulmani. La questione di sapere se siamo prima francesi, inglesi o musulmani non ha senso: se si parla di cittadinanza, siamo francesi o svizzeri o belgi musulmani e, se affrontiamo la questione filosofica, siamo allora musulmani belgi, o svizzeri o francesi come qualcun'altro sarebbe laico belga o francese, ecc. Sul piano dell'identità siamo europei di confessione musulmana e penso che non ci si debba agitare troppo su questo argomento.

Sinteticamente poniamo quattro principi:

1. E' possibile vivere in Europa;

2. Si deve rispettare la costituzione del paese in cui si vive;

3. Ci si deve considerare e si deve vivere come un cittadino che partecipa se si ha la nazionalità del paese;

4. L'adattamento tramite l'elaborazione giuridica (la fatwa) sarà lo strumento di un'integrazione migliore chiaramente fondata "nel diritto".

Si tratta di promuovere "un'integrazione del diritto", "un'integrazione legale". In breve, stabilire la legalità della presenza dopo che i fatti ce ne hanno imposto la constatazione. E' così che il diritto islamico ha sempre funzionato, nella sua essenza è esigente e flessibile. In effetti, direi che esso ha l'esigenza della flessibilità ed è per questo motivo che il giurista non deve mai mettere a riposo la sua iniziativa o la sua creatività.

J.N. Vorrei sottolineare questo grande principio che lei ha appena enunciato. Se una comunità musulmana è in minoranza in un paese che è uno Stato di diritto, uno Stato tollerante - non uno Stato che perseguita la fede - come è il caso della maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale, il musulmano deve accettare il diritto così come esiste. Può e deve utilizzare i margini che esistono all'interno di questo diritto per avvicinarsi quanto più possibile ai concetti dell'islam.

T.R. Esattamente.

J.N. Ma senza violare il diritto locale! Questa presa di posizione è molto importante. E' un messaggio che gli occidentali percepiscono molto male.

L'ostilità nei confronti dei musulmani deriva sempre dall'idea che una volta che essi saranno abbastanza numerosi, non obbediranno più al diritto comune e ci si ritroverà con due comunità, che vivono l'una accanto all'altra, con i loro propri diritti, con i loro propri tribunali. E la situazione diverrà prima inestricabile, poi conflittuale come in Israele o in Libano.

 
I conflitti di coscienza

Vorrei affrontare ora delle situazioni limite. Anche se un musulmano sincero può vivere secondo il diritto della famiglia francese, che procede da un'ispirazione onesta, che protegge la vedova e l'orfano, questo cittadino francese di religione musulmana può trovarsi in caso di guerra, incorporato come soldato e spedito senza che venga chiesto il suo parere nel Medio Oriente. E' già successo per l'Irak, ad esempio.

Egli si trova qui in una situazione paradossale, perché diventa mercenario, costretto dalla cristianità, di fronte ai suoi fratelli musulmani. Ciò ricorda la situazione degli harkis[2] in Algeria durante la guerra d'indipendenza di questo paese. Che cosa deve fare in questo caso?

T.R. Bisogna distinguere le situazioni.

Il principio primario è quello della giustizia. Se, in effetti, si instaura un conflitto ed il musulmano, che è nel partito avverso, difende una causa ingiusta, allora la partecipazione a questa guerra può essere legittimata. Il Corano parla del caso limite in cui due partiti musulmani si oppongono: bisogna allora stare dalla parte della giustizia e dell'equità. Il Profeta aveva detto:"Aiuta tuo fratello (musulmano) sia che sia giusto o ingiusto". I suoi compagni ne furono sorpresi:"D'accordo per aiutarlo se è giusto, ma come fare per aiutarlo nella sua ingiustizia". E il Profeta rispose:"Fategli smettere la sua ingiustizia". La frase è chiara.

Se, al contrario, si tratta di una guerra a fini coloniali, ad esempio, o per espropriare delle terre o per altro motivo, allora è impossibile per un musulmano prendervi parte. Dovrà qui far valere la clausola di coscienza, l'obiezione di coscienza. Noti che le cose devono essere chiare: non si tratta di fare obiezione di coscienza solo quando si ritiene che la guerra che ci oppone a dei musulmani sia ingiusta. L'obiezione di coscienza deve riguardare il coinvolgimento in qualsiasi guerra ingiusta, quale che sia l'avversario. Non c'è un trattamento selettivo in materia. La posizione di Cassius Clay, Muhammad Ali, che rifiutò di combattere in Vietnam era l'unica possibile dal punto di vista islamico: l'impresa era ingiusta ed illegittima ed un musulmano non poteva in nessun modo giustificarla. Cosa che anche molti cristiani hanno rifiutato di fare. Ancora una volta, ci rendiamo conto che l'analisi deve essere fatta caso per caso. Possiamo qui enunciare il principio generale, ma è necessario, dopo, considerare ogni situazione per quello che è. L'obiezione di coscienza a volte è necessaria. Essa non viene fatta solo dai musulmani, anche molti laici e cristiani vi hanno fatto ricorso.

J.N. A cominciare dall'attuale presidente degli Stati Uniti: Bill Clinton non ha fatto la guerra del Vietnam. Non è stato in verità un obiettore dichiarato, è stato più astuto. Dal momento che apparteneva ad un ambiente ricco e colto, ha fatto in modo di andare a studiare in Inghilterra.

T.R. Può darsi... Ma io penso qui a molti uomini che hanno avuto la dignità di dire "io non posso". E' la clausola di coscienza che esiste nel diritto europeo ed alla quale i musulmani potrebbero, come qualunque altro cittadino, ricorrere. Non si tratta di rifiutare di affrontare un correligionario, si tratta di rifiutare di difendere l'ingiustizia verso qualsiasi essere umano su tutta la terra.

J.N. Abbiamo scoperto nuovi principi che potrebbero fondare una coabitazione armoniosa tra musulmani e cristiani (anche apostati), ma metterli in pratica è estremamente difficile. Bisogna proclamare questi principi, in particolare per disarmare l'ostilità della quale sono vittime i musulmani in Francia. Sicuramente perché è una comunità importante che appariva minacciosa in certi posti. Ma la pratica di tutti i giorni è molto diversa.

La paura della criminalità e del terrorismo

Lei ha ricordato poco fa che circa il 60% dei detenuti nelle prigioni belghe sono musulmani, mentre la comunità musulmana dovrebbe rappresentare il 10% della popolazione. E' il segno di un stato di malessere. Ma è un malessere solo sociale? E' chiaro che una popolazione povera, non istruita, fornisca per forza di cose molti delinquenti. E' anche il caso degli Stati Uniti, benché gli africani, i neri, siano cittadini da molto tempo.

Ma è solo questo? Nell'immaginario degli europei autoctoni, i musulmani che si comportano male, che sono delinquenti, non sono delinquenti ordinari, ma sono delinquenti che cercano nella loro fede delle scuse e che conducono una specie di "guerriglia sacra" nei confronti degli autoctoni.

Questo sospetto è stato certamente rafforzato da ciò che è successo a Parigi tre anni fa, quando la capitale della Francia si è improvvisamente sentita minacciata da terroristi, che erano in effetti terroristi musulmani. Soldati in tenuta da combattimento pattugliavano i punti nevralgici, tutte i cassonetti dell'immondizia erano stati eliminati, le borse venivano perquisite all'entrata dei luoghi pubblici: il tutto creava un'atmosfera di stato d'assedio. La Francia non aveva conflitti interni coi propri cittadini, era vittima di un piccolo gruppo di terroristi. Si inscriveva all'interno di un conflitto tutto diverso, quello di un paese che non è la Francia, è l'Algeria, ma che prende la Francia in ostaggio. Questa situazione è stata presa malissimo dalla popolazione, poiché gli attentati hanno provocato dei morti come abbiamo ricordato nell'introduzione del libro. Questo tipo d'azione fa un grande torto a tutta la comunità musulmana.

Come ha potuto generarsi questa situazione? Altre comunità religiose, penso agli ebrei, ad esempio, non sono mai arrivati a questo tipo di terrorismo in Francia anche se avrebbero avuto delle ottime ragioni per ricorrere alla violenza...

T.R. Lei ha posto i termini del dibattito in modo molto chiaro. Cerchiamo di distinguerne i piani. Quello che abbiamo visto, nel corso della nostra conversazione, è che la questione del diritto, dell'integrazione legale, non è il cuore del problema. Le Costituzioni europee permettono nello Stato, e per l'essenziale, di realizzare una coesistenza positiva e, per i musulmani, partecipativa. I punti di attrito sono minimi e spesso marginali. Il problema non è dunque qui.

Qual è allora il problema? Dopo aver attraversato l'Europa, discusso con numerosi intellettuali anglosassoni o francofoni, lavorato sul campo sociale ed educativo, giungo alla conclusione che si tratta, prioritariamente, di una questione d'immagine, di rappresentazione. L'idea che ci si fa in Europa dell'islam, della musulmana, del musulmano, e per estensione dell'arabo o dello straniero, è sufficiente per livellare tutte le analisi sulle cause dei processi di marginalizzazione e di esclusione per non ritenerne che una: questo islam venuto da fuori.

Questa rappresentazione viziosa si nutre di tutti gli alimenti a sua disposizione: la delinquenza nelle periferie e nelle città, le macchine bruciate, i cognomi stranieri, la differenza d'aspetto, il foulard della vicina, gli ultimi sgozzati in Algeria, la "preghiera televisiva" di Saddam Hussein, le bombe lanciate alla cieca, i talibani, le donne invisibili e recluse dell'Afghanistan... E si finisce per mescolare tutto. Essendo percepito l'islam come denominatore comune, esso diviene la causa di tutto.

Bisogna assolutamente lottare contro queste semplificazioni. Siamo in un'epoca in cui la caricatura può servire per i progetti più folli e causare la morte di migliaia di esseri umani. L'abbiamo visto durante la guerra del Golfo. La messinscena ha pagato ed il popolo irakeno continua a pagare. L'unica via, a mio parere, ragionevole consiste nel distinguere i problemi e classificare le cause.

La frattura sociale esige un approccio circostanziato: sia che si tratti di musulmano, ebreo, cristiano, buddista o francese, haitiano o polacco, ci sono condizioni oggettive che spiegano l'esclusione, la violenza sociale ed i processi di marginalizzazione. Quando si sa come è stata pensata (male) la gestione dello spazio urbano per i primi migranti, come sono stati "parcheggiati" nelle città dormitorio, come si siano aggiunti a questo malessere la disoccupazione, la discriminazione nell'impiego ed il sentimento di rifiuto; quando si sa tutto questo si comprende l'origine del malessere. Si è creata una bomba a scoppio ritardato. In Inghilterra si sono creati dei ghetti etnici, in Francia, l'altro modello, si sono sviluppati ghetti economici. In entrambi i casi, un errore.

Nello spirito delle persone, francesi o europei autoctoni, come si suol dire senza sapere esattamente di che cosa si tratta veramente, la violenza, nelle vicinanze, sembra una replica della violenza televisiva. Sono gli stessi "attori". La scena internazionale esercita una costante azione parassitaria a danno delle analisi sulla situazione dei musulmani in Europa. Ora, anche qui occorre restituire il suo ruolo all'analisi geopolitica, all'approccio differenziato dei processi politici, economici, religiosi o semplicemente culturali. Bisogna togliere il velo della "differenza religiosa" che semplifica in modo oltraggioso le valutazioni, per accedere alla complessità dello studio politico e geostrategico.

Allora appaiono nuove questioni direttamente indirizzate ai nostri governi che sostengono in modo molto contraddittorio i poteri più duri, più tradizionalisti, più disumani. I musulmani, da parte loro, sono responsabili della mancanza di comunicazione con il loro ambiente. Oggi devono esprimersi di più, spiegare, farsi sentire, diventare appieno cittadini.

Cittadini, significa interpellare il potere sulla sua politica sociale o internazionale (senza, comunque, essere immediatamente sospettati di intesa col nemico). Cittadini, significa utilizzare tutti i palcoscenici da cui la propria voce può essere udita: a livello delle municipalità, del tessuto associativo, degli eletti locali, dei deputati. In breve, essere presenti e partecipare alla vita della propria società. A tutti i livelli. Farsi sentire e instaurare rapporti di collaborazione. La chiave è, alla fin fine, guadagnarsi con sincerità la fiducia dei propri interlocutori. Ma bisogna che questi ultimi si impegnino anche a lottare contro le loro rappresentazioni caricaturali, che si impegnino in un dialogo costruttivo e soprattutto che accettino di diventare dei veri e propri collaboratori sul terreno. E' necessario che svolgano il ruolo di interfaccia e diventino intermediari tra i musulmani mal percepiti e le società nelle quali vivono. Sempre più intellettuali, attivisti sociali e politici sono portati a svolgere questo ruolo e poco a poco le cose avanzano. E' un costante lavoro di avvicinamento. Non vedo altre prospettive, ad esempio, per pensare ad un intervento nelle periferie.

Attenzione, però, a non confondere il "lavoro di avvicinamento" con il "bricolage sociale": il lavoro di avvicinamento richiede una visione globale e sintetica, la determinazione di un obiettivo ragionevole e le tappe della sua realizzazione. La vicinanza nell'accompagnamento richiede che si vada avanti, e non solo che si calmino o che si leniscano puntualmente le ferite. In molti quartieri inglesi e francesi è come se si avesse un buon metodo ma senza un reale obiettivo per i giovani musulmani. La mancanza di chiarezza si pone a monte.

J.N. Vorrei intervenire perché questa lacerazione deriva proprio dalla difficoltà per alcuni individui, che sono sinceramente religiosi ma non sufficientemente istruiti, a fare all'interno della loro fede o dei loro costumi, la differenza tra quello che è essenziale e che bisogna conservare, e quello che bisogna abbandonare per adattarsi ai costumi ed al diritto locale. Non ci si inserisce in una comunità se non si accetta un certo numero di costumi.

Ora, questa situazione non è solo dell'islam. Altre comunità vivono in questo modo. Se lei prende il caso del Belgio, vedrà che ci sono due tipi di insegnamento. Uno ufficiale che è abbastanza laico, in senso aggressivo, nella tradizione del servizio pubblico dell'Education National in Francia. E poi un insegnamento libero, principalmente organizzato dalla Chiesa cattolica. All'incirca metà e metà. Si tratta dunque di un paese in cui i cattolici, quando si sono sentiti aggrediti hanno organizzato una rete scolastica. La stessa situazione esiste in Francia, dove una comunità cattolica certo più ristretta ha comunque voluto organizzare il suo proprio insegnamento. Si possono trovare scuole in Svizzera per gli ebrei e scuole cattoliche per gli integralisti dell'Opus Dei.

Scuole musulmane?

Forse, in fondo, la comunità musulmana composta di cittadini francesi non si sentirebbe maggiormente a proprio agio non solo organizzando istituzioni rappresentative, ma anche gestendo una propria rete di scuole? Quando la delinquenza sorge nelle periferie diseredate di Lione, Strasburgo o Marsiglia, è perché le barriere tradizionali dell'islam sono state soppresse. Eppure queste barriere sono forti: Esse fanno sì che in un paese musulmano come l'Arabia Saudita non ci sia delinquenza, perché le sanzioni vengono immediatamente applicate. Se si toglie questo sistema di sanzioni, certi giovani musulmani sono completamente disorientati. Ciò che un piccolo musulmano può trovare nella scuola laica, cioè un corso di morale astratta e filosofica, non l'aiuterà! Allora, perché non ci sono scuole musulmane?

T.R. Ci sono oggi due concezioni tra i musulmani.

Alcuni pensano che l'unica soluzione è la creazione di scuole islamiche che proteggeranno i bambini solo trasmettendo loro i valori che gli sono propri.

Altri, me compreso, pensano che bisogna fare molta attenzione perché queste scuole, per il modo in cui sono concepite, possono diventare dei ghetti e creare molti problemi che in realtà non risolveranno le situazioni.

Del resto, tutto dipende da che cosa motiva la costituzione di queste scuole islamiche: se si tratta di ritrovarci tra di noi, di isolarsi e di tagliarci fuori dal mondo, allora si rischia fortemente di provocare spiacevoli rotture domani, quando i giovani si ritroveranno abbandonati nella società. Se, al contrario, si tratta di progetti aperti in interazione con l'ambiente, con la preoccupazione di uno sviluppo armonioso con la società circostante, allora il progetto può essere interessante.

La valutazione che faccio delle comunità musulmane in Europa oggigiorno mi porta a pensare che siamo molto lontani dal concepire scuole islamiche dinamiche e aperte. Nella spirito della maggior parte dei pensatori musulmani, si tratta, come ho detto, di scuole separate, al margine della realtà del paese. E' pericoloso. L'esperienza inglese, con circa settanta scuole islamiche, è mitigata. Ci sono, certo, cose interessanti, ma i punti deboli sono tanti, in particolare a proposito dei genitori che a volte si scaricano sulla scuola "perché è islamica". Il progetto tocca famiglie agiate perché, eccetto due scuole sovvenzionate, le spese di partecipazione sono molto elevate rispetto alle entrate delle famiglie. In Olanda ed in Svezia le sovvenzioni statali (che arrivano fino al 75% delle spese per il funzionamento degli istituti) rendono queste scuole più accessibili ma ci si rende conto che i progetti sono gestiti in modo molto discutibile.

Si confondono a volte le scuole islamiche con quelle dei paesi di origine. Non si risponde al vero bisogno, addirittura ci si sbaglia completamente sulla gestione ed il metodo. Finora ho visitato poche scuole islamiche che offrono progetti interessanti. In Svezia sono stato piacevolmente sorpreso di vedere un'iniziativa molto originale con insegnanti ed allievi che non erano tutti musulmani e che, in più, sviluppavano dei veri e propri ponti con l'ambiente circostante.

Resto molto cauto ed anche se, un giorno, si potranno concepire scuole islamiche in modo del tutto innovativo, dobbiamo constatare che non è così oggi. Bisogna evitare ad ogni costo le scuole-ghetto. A dir la verità, credo che sia prioritario impegnarsi nel parascolastico. Per due ragioni: prima di tutto perché toccheremo più giovani e in modo, tutto sommato, più democratico; e poi perché il vero problema dei giovani si trova nell'inquadramento e nell'accompagnamento. Bisogna organizzare le fasi di un impegno locale con progetti educativi, attività sportive, iniziative di utilità pubblica.

Il primo passo consiste nel cambiare l'immagine che i giovani hanno di loro stessi. Le fratture cominciano a questo livello: è necessario valorizzare l'inquadramento e il sostegno affinché forgino nei giovani un'autorappresentazione positiva e più equilibrata. Bisogna assolutamente restituir loro il triplo sentimento della capacità, della responsabilità e dell'utilità: sentirsi capaci di riuscire, sentirsi responsabili di un progetto, sentirsi utili agli uomini, tutto ciò forgia una personalità, forma un'identità. Bisogna passare di là e non giocare a nascondino o a guardia e ladri.

Certi responsabili politici locali vorrebbero che non ci si preoccupasse della dimensione culturale e religiosa perché bisogna trattare questi giovani "come belgi o come francesi". Comprendo la loro preoccupazione, ma prima di essere francesi, belgi o altro, questi giovani sono esseri umani e mai si educa un individuo negando la sua memoria, la sua storia, le sue radici. Cerchiamo di non essere "repubblicani" al punto di esserne accecati e resi stupidi. Non si tratta qui di predicare un qualsiasi proselitismo, ma piuttosto di tener conto di questo dato oggettivo dei giovani, la loro religione d'origine e la loro cultura passiva: lavorare per cambiare l'immagine che essi hanno di loro stessi, significa preoccuparsi di queste dimensioni, necessariamente. In un modo o nell'altro bisogna parlarne, in modo ragionevole, in modo posato, in modo positivo. Soltanto questo approccio è in grado di dar loro la possibilità di scegliere quello che vogliono essere con cognizione di causa.

Purtroppo, il modo in cui si agisce oggi, parlandone senza parlarne, girando intorno al nocciolo del problema, perpetua i disagi e le ferite e, poiché non vengono offerti ai giovani i mezzi per conquistarsi la loro libertà, li si relega in una doppia marginalità sociale e culturale. La sconfitta parrebbe assicurata.E' necessario riconciliare queste popolazioni con la loro storia. Questa impresa, per gli attivisti ed i politici locali, è a mio avviso la prima tappa del cammino cittadino. Non si tratta di dispensare corsi di "catechismo musulmano", bensì di pensare a formazioni che tocchino la storia della civiltà musulmana, le scienze, l'arte, la lingua, le diverse tradizioni. Bisogna valorizzare questo patrimonio. Allo stesso tempo occorre occuparsi dell'educazione civica, della conoscenza dell'ambiente e della sua storia. L'uno non impedisce l'altro, al contrario, per quanto possa apparire paradossale, solo il primo passo può garantire il successo del secondo nelle popolazioni più toccate dalla frattura sociale. Una volta che saranno più in pace con la loro memoria, sapranno affrontare meglio le sfide del loro presente: credo davvero che quando i punti di riferimento del passato sono scomparsi, si affacciano i limiti nel presente, coscientemente o inconsciamente. E' ciò che troppi giovani musulmani stanno vivendo.

In seguito, diventa coerente e sensato consolidare le fondamenta della partecipazione civile. Si tratterà allora di spiegare come funzionano le istituzioni, che cosa dice la legge, quali sono i diversi tipi di elezioni e tutto il resto. Un sempre maggior numero di quadri di associazioni musulmane hanno preso coscienza dell'importanza di questa via. Non esitano ad andare a incontrare il sindaco della loro città, ad impegnarsi in collaborazioni ed a sviluppare ponti con il loro ambiente. Il sospetto resta, certo, molto forte ma le cose procedono e dappertutto in Europa si sente che ci si trova in un periodo di transizione e che le cose cambiano radicalmente. I musulmani stanno cercando il loro posto nelle società europee - anche se il processo sembra a volte molto lento - e già, in certe circostanze, il loro dinamismo è una promessa di contributo positivo per l'avvenire. L'educazione alla cittadinanza è uno dei fondamenti della soluzione per il futuro. Bisogna insistere su questo passo perché ha un doppio obiettivo: forzare i musulmani a ritrovare la cultura del dialogo che gli è proprio tramite il dibattito intra-comunitario e sviluppare il sentimento di appartenenza alla società. Il lavoro di prossimità è tanto fondamentale quanto le iniziative di collaborazione.

In Francia oggi si è sviluppata in oltre diciotto città un'iniziativa che mette in relazione le federazioni delle opere laiche della Lega dell'insegnamento e le associazioni musulmane molto diversificate. Moduli e programmi di formazione vengono realizzati tanto a proposito dell'islam quanto della laicità o della cittadinanza. E' un lavoro da pionieri, ma di enorme importanza.Uomini e donne hanno deciso di smettere di osservarsi col binocolo, attraverso il prisma deformante delle caricature. Hanno deciso di dialogare, di essere collaboratori onesti, cioè esigenti. In due anni i progressi realizzati sono notevoli. Ieri molti esprimevano i loro dubbi, repubblicani laici o musulmani; oggi sentono che è la via giusta. Gli stereotipi crollano, la fiducia si instaura tra i dialoganti e, sempre più, ci si sente sulla stessa barca: quella di cittadini responsabili che vogliono offrire a ciascun cuore e ciascuna coscienza i mezzi per preservare la loro identità, la loro libertà e la loro indipendenza. Insieme dobbiamo lavorare sugli stereotipi ed oltrepassare i sospetti che paralizzano.

J.N. Proprio così. Tutti quanti non possono che essere d'accordo sul principio. Bisognerà uscir bene da questa situazione. Se si considerano le comunità musulmane d'Europa, esse sono là per restare e non hanno assolutamente alcuna voglia di ritrovarsi nei loro paesi d'origine, spesso teatro di conflitti e di persecuzioni. Non vedo un curdo tornare in Turchia o un kosovaro tornare in Serbia, di sua spontanea volontà, col sorriso sulle labbra, nella certezza di essere rispettato.

Una laicità rispettosa delle religioni

Adesso, la laicità non è semplicemente una neutralità, una distanza tra lo Stato di diritto e le diverse convinzioni religiose, come negli Stati Uniti. La separazione tra lo Stato e le Chiese significa paradossalmente una straordinaria benevolenza da parte dello Stato americano riguardo alle sue confessioni religiose. Ad esempio, tutte le organizzazioni religiose godono di una totale esenzione fiscale.

Nel caso della Francia, è tutt'altra cosa. La forma della laicità francese può ritrovarsi in altri luoghi più o meno attenuata, come in Belgio o in certi cantoni svizzeri. Si può dunque trovare in situazioni di conflitto. E di conflitto fondamentale rispetto a principi, sia del Corano, sia della Bibbia, sia del Vangelo, principi sui quali non si può transigere.

Citerò un esempio storico significativo: nel momento in cui, in Belgio, è stata votata la legge che legalizzava l'aborto, colui che doveva firmarla, cioè il re Baldovino, ha fatto valere una clausola di coscienza e non l'ha firmata. Correva un grosso rischio; facendo passare la sua fede davanti alla sua funzione nell'esecutivo, rischiava proprio di far passare il Belgio dalla monarchia alla repubblica. Ma ha avuto il coraggio di affrontare questo conflitto. Ho preso un esempio di parte cattolica, ma se ne possono trovare in altre confessioni.

Negli Stati Uniti, ad esempio, i testimoni di Geova rifiutavano di servire nell'esercito di coscrizione ed un certo numero di essi sono stati messi in galera per anni a causa di ciò.

Potrebbe ricordare le circostanze in cui si produrrebbe questo tipo di conflitto, rispetto a quello che prescrive il Corano? Non possiamo vivere in un universo in cui tutto è rose e fiori. I principi religiosi sono là, in certi momenti, per orientare la società civile e porre degli obblighi. Lei immagina che un musulmano divenuto cittadino di uno di questi Stati di diritto occidentale debba ribellarsi, da solo o con tutta la comunità, in certe circostanze e quali?

T.R. Avevo tentato di studiare i casi limite nel momento in cui scrivevo il mio libro To be a european muslim[3], perché volevo soffermarmi sull'approccio giuridico fondamentale. Mi è parso chiaramente che due orizzonti si ricongiungano e rendano le cose molto meno difficili di quanto non sembri di primo acchito.

Se si considera la legislazione europea, ci si accorge che essa lascia, all'interno di limiti chiaramente definiti, un margine importante di scelta a ciascun individuo riguardo al suo comportamento ed alla gestione dei propri affari. Non cade tutto sotto la spada della legge ed il margine di manovra è conseguente.

Se ora ci voltiamo dalla parte del diritto musulmano, osserviamo che la flessibilità e l'adattamento partecipano dell'essenza stessa della pratica giuridica. Queste due realtà messe vicine e considerate insieme fanno cadere moltissimi ostacoli che all'inizio ci parevano soggetti a conflitto. Quando la legge di un paese lascia ai cittadini la scelta tra diverse possibilità, i sapienti dovranno orientare i musulmani verso quella che meglio corrisponde alle loro prescrizioni: può essere il caso quando ci si trova davanti a diversi tipi di contratti d'assicurazione, per ciò che riguarda le formulazioni dei contratti di matrimonio o di successione. Ciò richiede uno studio approfondito della legge del paese in questione e della giurisprudenza al fine di conoscere la latitudine concessa nelle scelte. Non si tratta di sviare la legge o di giocare col suo senso, si tratta di trovare una soluzione all'interno dei limiti che essa ha prescritto nel rispetto della libertà concessa a ciascun cittadino.

Quando ci si trova davanti a leggi che stabiliscono degli obblighi secondo la legislazione del paese, come contrarre certe assicurazioni, e che ci spingono, per caso, ad agire al di fuori delle norme prescritte dall'islam, in questi casi limite, molto rari del resto, sarà necessario far valere il principio di adattabilità ed enunciare un parere giuridico circostanziato, una fatwa, che offre una soluzione temporanea o definitiva rispetto a questa precisa situazione, per date persone, in un paese specifico. La fatwa nasce dallo studio di casi limite molto precisi e non si esporta. Essa deve tener conto del grado di costrizione delle leggi del paese e cercare, se non c'è compatibilità possibile tra la detta legge secolare ed i principi islamici, la soluzione che costituisce il male minore. E' una nota regola dei fondamenti del diritto islamico. Cioè, se si considerano entrambe le sfere, il margine di manovra è notevole ed esistono soluzioni purché si oltrepassino le apparenze e si studi davvero il diritto come materia. Si tratta di uno studio preciso, circostanziato e sempre ragionevole.

Inoltre, è necessario che da una parte come dall'altra si sappia veramente di che cosa si parla. Non è sempre così. Da un parte ci sono partigiani della laicità che dicono della laicità quello che ne hanno capito e la modellano secondo la loro convenienza. Lungi dal vero studio del diritto, il concetto di laicità diventa un'arma contro tutte le visibilità o manifestazioni religiose. Questo diventa il concetto-ripostiglio di un'ideologia di combattente che vuole venire alle mani con i "religiosi". Questa deviazione è grave e bisogna assolutamente porre dei limiti.

Se la laicità può esprimere un atteggiamento filosofico che il più delle volte si fonda sull'agnosticismo, questo aspetto non rientra nel dibattito che ci interessa. Qui si tratta di un quadro giuridico che si fonda su testi, leggi e su una giurisprudenza: sono questi ultimi che fanno fede e non i ragionamenti mordaci di un certo numero di partigiani della "laicità da combattimento". Non ci dobbiamo lasciar trascinare sul terreno del rifiuto ideologico. Noi cerchiamo di risolvere delle questioni di diritto ed è necessario circoscrivere i campi.

Quanto ai musulmani, anche loro non sono da meno a proposito di atteggiamenti discutibili e privi di diritto. Alcuni conoscono molto male la loro religione e finiscono col mescolare tutto. Nel loro spirito non esiste alcuna sfumatura e tutte le prescrizioni occupano la stessa posizione e si equivalgono. Pregare avrebbe la stessa importanza della chiamata alla preghiera, digiunare lo stesso grado di necessità che il diritto di sacrificare durante la grande festa, o ancora il fatto di vestirsi all'orientale sarebbe della stessa competenza del rispetto delle clausole del matrimonio. Ebbene, non c'è nulla di meno giusto. Riguardo alle prescrizioni islamiche bisogna considerare i diversi gradi di obbligo: distinguere ciò che è essenziale da ciò che è secondario, determinare ciò che è definitivamente fissato da ciò che è soggetto ad adattamento. La giurisdizione islamica è una scienza che suppone una visione globale e precisa, non deve essere sottomessa agli eccessi emotivi che portano alcuni musulmani a pensare che è impossibile vivere qui tanto il sentimento che predomina è quello del rifiuto.

E' proprio questo sentimento che spinge alcuni musulmani a lasciar perdere tutto: temendo l'idea che ci si fa di loro, invitano ad abbandonare quasi tutte le pratiche islamiche. In ogni caso quelle che i loro interlocutori europei comprendono meno. Agiscono in modo freddo ed arrivano a ripetere a volte quello che i partigiani della "laicità da combattimento" affermano: "Questo o quel comportamento o abbigliamento è contrario alla laicità, dunque i musulmani devono astenersene". Ebbene, troppo timorosi o in difetto di conoscenza sociale o politica, ripetono spesso delle contro-verità e vengono meno alle loro responsabilità: studiando, si renderebbero conto che la laicità di diritto non è quello che ne dicono coloro che cercano il conflitto e vogliono creare un inutile turbamento, molto spesso per i loro interessi:

Bisogna dunque impegnarsi in un lavoro di fondo. Per il grande pubblico è necessario informare tanto gli Europei quanto i musulmani di quello che è e di che cosa permette il quadro legale del paese in cui vivono, ma anche di che cosa è l'islam. E' necessario, oggi, promuovere un'informazione ad ampio raggio che si fondi sulla trasmissione del minimo di conoscenze necessarie per formare il cittadino di oggi e di domani: conoscenza delle istituzioni e delle leggi del proprio paese, conoscenza dei propri concittadini nella loro diversità religiosa e costruzione, con lui o lei, della società nella quale vivranno fianco a fianco i loro figli. Un impegno, fondato su tale approccio, è il mezzo più sicuro per opporsi ai comunitarismi che noi rifiutiamo. Certo, sappiamo qual è l'importanza e la necessità del preservare il sentimento della comunità di fede, della comunità spirituale. Un musulmano non ne può fare a meno, ne abbiamo già parlato. Ma questo non ha niente a che vedere con la costituzione di ghetti sociali, di spazi d'esclusione o di legislazioni specifiche.

Tutto quello che ho detto sulla necessità di intraprendere un lavoro giuridico molto preciso, e allo stesso tempo un'ampia informazione volta a diffondersi in un modo o nell'altro presso il grande pubblico, tutto ciò ci orienta all'esatto opposto del comunitarismo. Noi vogliamo una società di incontro, di scambio, di dialogo nel rispetto e nell'esigenza dei concittadini che si conoscono e si riconoscono per quello che sono. La convinzione degli uni o degli altri non si oppone al dialogo e all'apertura. Si è spesso confuso il fatto di essere "convinti" col fatto di essere "ottusi": queste due nozioni non sono necessariamente sinonime. Essere profondamente convinti e restare aperti è possibile. E' un segno di dignità, di profonda umanità. Questo dovrebbe essere l'insegnamento offerto alla scuola della fede.

Una parola ancora sui politici che dicono una cosa e fanno esattamente il contrario. Da una parte affermano di opporsi al "comunitarismo" e va bene. Ma dall'altra, una volta che arrivano le elezioni, ecco che si gioca coi giovani "usciti dall'immigrazione" e coi musulmani. Si mette un nome dal suono "arabo" sulla lista, si promette di considerare la situazione dei musulmani, di pensare ad un progetto di moschea ma si arriva a prometterla solo "in caso di vittoria alle elezioni".

A che gioco giochiamo? La corsa ai voti fa dimenticare il minimo principio di civismo. Come vorremmo, davanti a tali comportamenti, che i musulmani non si costituissero in una sorta di lobby cosciente della forza del proprio numero. E di votare per i più "generosi". I doppi discorsi dei politici preparano i dolori di domani. In quanto musulmani non conosciamo che un principio, una regola in materia di scelta politica: bisogna votare per colei o colui che associa due qualità, l'onestà e la competenza, musulmano oppure no, cioè non per i "compratori di voti" che si comportano come dei veri e propri cacciatori camaleontici. Ciascun cittadino onesto deve rifiutare queste deviazioni e soprattutto non rinunciare perché "questa è la politica". La nostra fede e la nostra coscienza devono tenerci svegli e vigili.

Dalla laicità alla secolarizzazione

J.N. Vorrei riprendere la questione ma da un'angolatura completamente diversa. Si potrebbe dire che non c'è nessun problema perché gli Stati di diritto europei in generale sono estremamente tolleranti e assolutamente non aggressivi nei confronti delle comunità religiose. Poco a poco, si arriva ad una situazione in cui il cristiano medio si dice che non ha più bisogno di religione perché lo Stato colma tutte le funzioni e tutti i servizi che prima ci si aspettava dalla religione. Lo Stato garantisce l'ordine, assicurato meglio dalla polizia che dall'insegnamento della morale a candidati ladri. Prima bastava terrorizzare i futuri delinquenti precisando che mettevano in causa la loro salvezza eterna. La solidarietà si esercita attraverso un enorme meccanismo di redistribuzione delle entrate. Le Chiese non si occupano più, in principio, dell'insegnamento. Se ne occupa lo Stato. E se ne occupa molto bene. Le istituzioni caritatevoli del tipo ospizi, ospedali ecc., non sono più necessarie perché fa tutto lo Stato. Dunque, a volte si ha la sensazione che si possa smettere di occuparsi della carità nel senso tradizionale del termine in tutte le religioni.

La laicità ha cancellato le differenze di appartenenza religiosa.Si è arrivati a società completamente secolarizzate. Una serie di funzioni che dovevano appoggiarsi ad una fede religiosa, una fede in una certa trascendenza, sono svolte ora, quotidianamente, dagli Stati. La maggior parte degli europei pensa che la religione non è più necessaria. Ne hanno la prova, poiché non la praticano più.

Restano all'interno di questa società secolarizzata, una piccola minoranza di credenti. I cristiani praticanti rappresentano circa il 10% della popolazione in un paese occidentale. Questi cristiani pensano di possedere le regole, di disporre di criteri per condurre una vita conforme alla volontà di Dio sui quali non possono transigere. Questo è il caso nel diritto della famiglia: l'alzata di scudi in Francia a proposito del PACS ne è un buon esempio, come per l'aborto, le manipolazioni genetiche, il clonaggio di esseri umani. Io sono tra coloro che pensano che una società in cui non ci fosse alcuna religione, alcuna testimonianza della trascendenza, andrebbe alla deriva.

Il nocciolo duro delle fedi monoteiste

Per tutti i credenti di tutte le confessioni esiste un punto ostico sul quale non si può transigere. Questo punto ostico è in larga misura comune a cristiani, ebrei e musulmani, perché queste sono tre religioni monoteiste sempre imperniate sul rispetto della dignità di ciascun essere umano. Forse è questo il loro modo di tradurre la propria fede in un Dio unico. Dal momento che questo è vero e che esistono comunità di credenti praticanti, di ebrei, cristiani e musulmani, queste possono, a un certo punto, allacciare delle alleanze di fatto per lottare contro talune deviazioni totalmente immorali.

Penso, in particolare, a tutto ciò che può accadere in una civiltà senza fede né legge che disponga di mezzi così potenti come l'ingegneria genetica. Si finirà per fabbricare prodotti di bellezza a partire da embrioni umani creati appositamente per l'industria: si sacrificherà una vita virtuale per prodotti antirughe. Potrebbe provare a delineare i contorni del nocciolo sul quale tutti i credenti potrebbero battersi insieme?

T.R. L'epoca moderna effettivamente ci spinge ad ingaggiare delle sfide comuni. Penso che lei abbia ragione a ricordarlo e, di fatto, va esattamente nel senso dell'affermazione di Pierre Dufresne della quale ho spesso parlato. Da parte mia proporrei due sfere sulle quali, insieme, dovremmo concentrare la nostra attenzione e i nostri sforzi.

La prima riguarda la spiritualità. Per una donna ed un uomo desiderosi di proteggere la loro spiritualità, le società moderne possono essere rudi e crudeli. La questione è semplice: come vivere e proteggere, oggi, una vita spirituale, l'interiorità, la meditazione, la riscoperta del soffio di vita? Non è facile ed ancor meno lo è l'esigenza della trasmissione. Come trasmettere ai propri figli il senso della vita interiore, con Dio, tra gli uomini.

Il secondo campo è quello dell'educazione. Dobbiamo impegnarci insieme su questo terreno. L'educazione e l'istruzione oggi non è un problema che si pone solo ai genitori e agli insegnanti. E' una questione di società che deve associare tutti i cittadini. I credenti, i laici e tutti gli esseri preoccupati dell'avvenire devono mobilitarsi per pensare ad un'educazione che risponda alle esigenze della nostra epoca. Si tratta, a casa e a scuola, di formare degli esseri umani. La famosa distinzione tra la famiglia che educa e la scuola che istruisce non regge più: che cosa abbiamo da proporre? E' un grande cantiere sul quale si gioca la protezione della libertà di ciascun individuo.

Ci sembra di perder la memoria tanto la velocità ci trascina. La velocità ci sta rubando la nostra libertà. In molti campi, i "modi" di pensare hanno sostituito la conoscenza: si finisce col credersi liberi nell'ignoranza. L'ignoranza è la peggiore delle prigioni perché ci illude sull'invisibile realtà delle sue sbarre. E' vero nel campo religioso nel quale le nostre società producono un vero e proprio analfabetismo religioso, ma ciò vale anche per tanti altri campi. Spesso non si conosce più la propria storia, la propria cultura, le proprie radici e si vorrebbe spingere gli uomini a conoscere la cultura dell'altro. Un'illusione. E' nei programmi scolastici che bisogna cercare le prime concessioni fatte all'estrema destra e non solo nelle periferie sfavorite.

J.N. Dunque, bisogna essere presenti nel processo educativo?

T.R. E' indispensabile. Ma bisogna farlo in modo profondo e costruttivo. I discorsi negativi sulla scuola e sull'incompetenza degli insegnanti sono le parole dei pigri e dei dimissionari. Si vorrebbe che l'insegnante fosse tutto, un papà, una mamma, un assistente sociale, un educatore, uno psicanalista, uno psichiatra, a volte un portinaio e spesso un confidente.

Le nostre società devono trovare oggi cittadini che si assumano le loro responsabilità e si impegnino nelle scuole che sono tutto fuorché spazi chiusi. L'interazione positiva con la società deve essere pensata dalla collettività - le scuole sono luoghi di vita al centro di altri luoghi di vita. Le collettività locali, i genitori e gli insegnanti devono lavorare in concertazione e non rilanciarsi più la palla cercando i "colpevoli". Tutti noi dobbiamo investire nel campo dell'educazione in senso largo. Dal sostegno delle famiglie all'attività parascolastica, dalla formazione del cittadino all'impegno nella solidarietà. Ho lavorato dieci anni nell'impegno di vicinanza, non conosco altre vie. Insieme, e non con gli insegnanti da una parte, i politici dall'altra, i lavoratori sociali in mezzo e gli ebrei, i cristiani, i musulmani in ordine sparso. Si sbaglia il metodo e la scelta dei partners.

J.N. Un'alleanza reale tra credenti potrebbe esigere una vera formazione religiosa a scuola. Si può ammettere un insegnamento pubblico, dove i bambini possono ritrovarsi indipendentemente dalla loro estrazione sociale o religione famigliare. E' una buona cosa insegnar loro a vivere in modo pluralista.

L'insegnamento della religione

Questo non impedisce che, nell'educazione in generale dei bambini, l'educazione religiosa debba avere una parte. Non può essere soltanto trasmessa a casa, in una pastorale apposita per bambini, ma deve avere il suo posto a scuola, per essere rispettata dai bambini e affinché i bambini la prendano sul serio. E quindi, si può chiedere che nell'insegnamento pubblico a tutti i livelli esistano nel programma delle ore dedicate all'insegnamento religioso. Le diverse confessioni organizzano poi questo insegnamento.

T.R. Il punto è proprio questo, che le religioni, la loro storia, i loro fondamenti siano presi sul serio. Per timore di proselitismo religioso si impedisce di apportare qualche chiarimento di ogni sorta ai giovani e ai meno giovani. Bisogna trovare un modo per insegnare queste materie che permetta almeno di avere qualche punto di riferimento. La memoria si perde, non resta più granché della storia e gli insegnanti di francese e filosofia sono costretti ad arrangiarsi con commenti ai testi perché i loro allievi non hanno più riferimenti.

La stessa cosa succede a livello universitario: all'inizio ne fui stupito, e quante volte ho dovuto ricordare fatti semplici che numerosi studenti ignoravano totalmente. La scuola deve rispondere a questa missione, in un modo o nell'altro. Le nostre società multiculturali esigono questo tipo di formazione che permette il recupero, l'identificazione - in breve, la comprensione. Ancora una volta non si tratta di catechismo ma piuttosto di uno studio di fatti e riferimenti, il che significa che coloro che insegnano queste materie devono essere competenti, essere veri pedagoghi e non avere vaghe conoscenze dell'una o dell'altra religione con le quali continuano, volontariamente o no, a trascinare i fantasmi più strambi sull'altro.

Si tratta di un insegnamento di natura scientifica e approfondita nel corso del quale non si deve esitare a mettere, a volte, gli allievi in situazione di dialogo aperto con i fedeli delle religioni o delle confessioni studiate. Si dovrebbe trattare di uno studio ampio, facente parte del corso di formazione di tutti gli allievi. Oggi si arriva a proporlo a qualche allievo al di fuori dell'orario scolastico; va bene, ma si sottolinea spesso che i giovani che partecipano a queste formazioni, oltre gli orari del corso, sono già sensibilizzati a questo riguardo a casa. Senza dubbio non sono loro che ne avrebbero più bisogno.

Queste formazioni sono estremamente necessarie e coloro che vi si oppongono in nome del rifiuto del "proselitismo" mi sembrano loro stessi proseliti della "libera ignoranza" menzognera e pericolosa. Quali che siano le nostre ideologie e le nostre credenze o non-credenze, credo che non ci si possa opporre a "maggiore conoscenza e maggior apprendimento". La libertà che si invoca ogni volta che si parla di religioso è sorella della conoscenza, mentre noi stiamo "producendo" dei veri e propri "ignoranti". Si può in seguito fare la critica delle sette, quando l'incoerenza della nostra gestione ed il vuoto e le lacune delle nostre formazioni ne hanno preparato il giaciglio.

J.N. Forse si vivrebbe meglio il pluralismo religioso se questo pluralismo fosse rispettato nelle scuole. Da una parte ore di insegnamento religioso in cui i bambini si separano per seguire l'insegnamento della loro religione. Dall'altra, in certi momenti, li si fa incontrare tutti affinché ciascuno conosca la fede degli altri.

T.R. E' necessario un dibattito di fondo sul contenuto di questa formazione. I pareri sono divergenti e le sensibilità sono a fior di pelle su tali questioni. Bisogna restare prudenti e rispettare le tappe con un dibattito chiaro sugli obiettivi. Certi affermano che non si deve trascurare la presentazione dello spirituale "dell'interiorità" e altri vogliono un insegnamento sulle religioni, cioè presentazioni teoriche di "sistemi di pensiero" e di fatti storici "oggettivi".

J.N. Ma non è sufficiente.

T.R. Per il credente questo è effettivamente insufficiente ma bisogna dividere le cose e proporre degli approcci complementari. La scuola non può più fare tutto e, come ho già detto, bisogna pensare a spazi di sostegno a partire dalle famiglie e dalle strutture associative locali. Un discorso "religioso" a scuola non è "la" soluzione ai problemi che vivono le nostre società; non si tratta di "scaricarci" su una scelta che rappresenterebbe la panacea. Le questioni relative all'identità sono complesse ed esigono che si pensi ad approcci allo stesso tempo differenziati e complementari ridistribuendo i ruoli ai diversi collaboratori del tessuto o della struttura sociale. Dall'individuo alla famiglia, poi dalla famiglia alla collettività. La questione della trasmissione dei valori, della promozione di comportamenti intellettuali e sociali deve essere trattata a monte.

Che cosa vogliamo? Questioni che abbiamo rifiutato di porci per decenni ci vengono imposte dalla prospettiva di catastrofi imminenti. Per il credente, tutti questi problemi fanno parte dell'edificazione della sua fede: il senso della vita, l'etica, lo spirito critico, la presenza solidale. La stessa cosa vale per la coscienza del laico impegnato. Insieme devono impegnarsi a porre queste questioni, a suscitare il dibattito a intervenire a livello sociale, educativo, politico ed economico per fare proposte, sviluppare strategie alternative. La nostra situazione non esige arrangiamenti strutturali, cosa che molto spesso facciamo chiamandoli "riforme". Non sono altro che "sistemazioni" o semplici modificazioni nella "gestione".

Ebbene, abbiamo bisogno di una riforma fondamentale, profonda, nuova, perché essenzialmente centrata sull'umano e sulla giustizia. Una riforma, come l'intendo io, richiede che si sviluppi la coscienza della "rottura" in vista di proporre, a partir dal livello locale, un altro modo di essere, di essere al mondo e di gestire le cose. Ciascuno a partire dai suoi valori, dalla sua coscienza, dal suo coinvolgimento particolare deve poter apportare il proprio contributo a questa riforma. Si tratta anche, è chiaro, di rafforzare in noi, insieme, il "dovere di resistere" di fronte alle deviazioni e alle follie di una gestione senz'anima, senza coscienza.

Non conosco un vero essere cittadini se non nel "rifiuto impegnato" della logica del rendimento e della produttività. Essere con Dio significa ricordare il posto essenziale dell'uomo, dell'umanità, della fraternità umana, una fraternità d'essere, anche e soprattutto se ci teniamo a vivere una diversità di pensiero. La fede oggi è un matrimonio tra un'intensa spiritualità ed una determinata resistenza. E' il senso della "testimonianza", della shahadah per il musulmano, e anche l'Occidente è "spazio della testimonianza". Di cuore e di intelligenza.

Bisogna rifiutare nella coscienza un mondo senza coscienza. Il senso della nostra resistenza è lì. Il tessuto associativo musulmano è oggi molto forte in Europa e penso che la sua missione, dopo aver superato la freddezza e l'isolamento, è di interrogare tutti gli esseri umani, tutti i partners, individui o istituzioni, per partecipare insieme ad un nuovo dibattito sociale che, in fondo, dovrebbe dar vita ad un progetto di società. Rifiutare il proselitismo - e bisogna farlo in modo chiaro - non vuol dire rifiutare il dialogo e l'impegno comune. Le fratture sociali, l'esclusione, la marginalità dei giovani e degli anziani ci rimanda ai nostri rispettivi valori ed alla nostra esigenza di dignità umana e di giustizia sociale.

Dobbiamo anche ricordare che un mondo che confisca l'80% delle ricchezze del pianeta nelle mani del 17% della popolazione non saprà essere un mondo sereno. Le cifre traducono da sole la violenza, una violenza senza armi, certo, ma una violenza terribile, distruttrice, inaccettabile. Gli esseri umani soffrono e si lamentano come la natura, del resto, sottomessa ad un trattamento indegno ed incosciente. Qui inizia la solidarietà degli uomini di buona volontà, di coloro che comprendono la loro fede, la loro vocazione, la loro presenza nella resistenza. Si tratta di non rinunciare, contro tutte le semplificazioni, le caricature, le dicerie e le meschinerie.

Ciò che noi portiamo è più nobile di ciò di cui ci insultano. Taluni parlano di chiusura di spirito e non ci hanno mai rivolto la parola; loro parlano di apertura, chiusi nella loro presunzione. Dobbiamo superare queste "meschinerie", queste chiacchiere. In nome di tutte le donne e di tutti gli uomini che vivono la discriminazione quotidiana, di tutti coloro che sono umiliati quotidianamente perché non hanno il necessario per vivere, di tutti i torturati nelle prigioni della vergogna e delle dittature, in nome di tutti i giovani che vedono nell'avvenire solo il vuoto, non si può continuare a perdere tempo. Bisogna osare, osare affermare convinzioni forti, senza essere chiusi; determinati, senza essere violenti; attivi, senza essere oppressivi.

Stiamo vivendo un momento di "piccolo" consenso in cui pare che l'unica apertura mentale passi solo attraverso l'espressione dei propri dubbi. "Non sapere più veramente", "non dire niente", "non pronunciarsi", viviamo una sorta di oppressione dell’approssimativo, una moderata dittatura del "forse che sì, forse che no", fondata su una libertà confusa con l'indecisione. Tutto ciò mi preoccupa perché il regno dell'indeciso istituzionalizzato, è il potere offerto alla rinuncia. Bisogna osare, oggi, a rischio di sbagliarsi, bisogna dire, chiedere, interpellare, ritrovare il soffio vero dei veri dibattiti d'opinione in cui ci si rispetta a sufficienza per affrontare le questioni di senso, i problemi di fondo.

Io rispetto i dubbi, le ricerche, le pause che ciascuno deve vivere, si può aver voglia di vivere per essere ed avanzare, ma sento molta pena quando questo cammino diventa garanzia di pigrizia intellettuale e civica in cui si giudica l'altro, seduti davanti al televisore e ci si rattrista dello stato del mondo tra il formaggio ed il dessert. Soddisfatti di ciò che si è, sicuri di ciò che si sarebbe potuto fare senza farlo mai. Ma nulla disturba questi giudici poiché partecipano alla grande messa della relatività di tutto ed al potere assoluto delle mode.

Mi sembra che l'impresa nella quale ci siamo impegnati con questo libro sia un passo verso tutt'altra cosa. Sa, a volte mi dà fastidio vedere certi amici cristiani aver talmente paura di essere giudicati al punto che nascondono o relativizzano tutto quello in cui credono. Non osano più, perché bisogna sembrare "moderni", ed i principi della religione sono così obsoleti... Non credo che sia questo il modo di assumersi le proprie responsabilità: non bisogna esitare a tradurre le nostre convinzioni, dire la nostra fede, la nostra vita spirituale, le nostre aspettattive. Vivere le nostre convinzioni, restare aperti e partecipare a tutte le iniziative che permetteranno alle nostre società di produrre idee affinché vi si esprimano autentiche convinzioni e sincere prese di posizione.

Se, per non essere giudicati, non bisogna più dire né manifestare nulla, allora si è raggiunto il grado zero dell'umanità, per dirla come Barthes, il nuovo regno dell'essere umano invisibile. E' meglio sparire per davvero. La tolleranza, in questa vacuità, è un concetto vuoto, una parola strumentalizzata per darsi una buona coscienza. Credo piuttosto che l'avvenire si costruirà con gli esseri che sono convinti e rispettosi, convinti di questa convinzione che li spinge a resistere alle deviazioni. Davanti a Dio o alla loro coscienza, con gli esseri umani.

Il mistero delle differenti religioni

J.N. Esiste un versetto del Corano, profondamente enigmatico, che dice all'incirca questo: Se praticate fedi diverse, è Dio che l'ha voluto. E' una sorta di pedagogia al fondo della quale vi ritroverete comunque nel momento preciso in cui Dio l'avrà voluto.

Non siamo ancora arrivati a questo punto. Credo che sia necessario vivere le differenze alleandosi per difendere un nocciolo duro. Ma ci sono cammini diversi per arrivarci, a questo nocciolo duro. Siamo simili ma non siamo identici. E, invece di rimpiangerlo, si potrebbe gioirne. Non sarebbe opportuno che le diverse fedi esercitino l'una nei confronti dell'altra ciò che si chiama nei monasteri cristiani la "correzione fraterna". Dire all'altro, onestamente ed evitando qualsiasi meschineria, che cosa si trova di eccessivo o di sbagliato nella sua pratica, accettando, ovviamente, che egli proceda nello stesso modo. Più sopra ho eseguito questa correzione fraterna facendo il mea culpa dei cristiani: questa fede per troppo tempo è vissuta nella tristezza, nella colpevolezza, nel pessimismo spirituale. Ciò che ho trovato di costruttivo nelle conversazioni che abbiamo avuto, è proprio il modo di uscirne. E' molto difficile uscire dalle perversioni della propria fede. Tutte le religioni hanno sempre delle deviazioni. E nessuno pratica la sua fede in modo ideale e perfettamente puro. Un tale dialogo con un musulmano mi porta a purificare la mia fede su questo punto preciso in cui il cristianesimo si è allontanato. Lei immagina, per un musulmano, nel contatto con cristiani onesti e nell'espressione più pura della loro fede, lei immagina un'influenza positiva per i musulmani?

T.R. Sì, certo, perché spesso l'ho vissuto. Quanti lungo il cammino, come lei, mi hanno insegnato a condividere, a comprendere dall'interno ed hanno effettivamente fondato la nostra relazione sulla correzione fraterna di cui lei parla. Mi hanno ricordato l'umiltà, la preoccupazione del meglio e poi una nozione che, sfortunatamente, i musulmani dimenticano troppo spesso di ricordare e trascurano di vivere: quella dell'amore. Il messaggio dell'islam trae la sua forza dallo stesso soffio d'amore per il Creatore e per l'umanità, ma troppo spesso i musulmani lo trascurano per fermarsi al discorso normativo. Spesso i miei amici cristiani mi hanno offerto il regalo di uno specchio che mi ricordava il senso di questo Amore, anche le sue esigenze, e la sua forza.

J.N. La celebre regola di Agostino: Ama e fa' quello che vuoi!

T.R. Più concretamente, mi hanno ricordato a volte il senso dell'amore al cuore dell'esigenza della norma. E' un messaggio molto forte del cristianesimo e molti cristiani lo testimoniano nella loro vita quotidiana. E' un messaggio di spiritualità, d'amore, di perdono e di vicinanza al prossimo. E' anche un formidabile specchio per farci crescere ricordandoci un fondamento essenziale: la norma è al servizio del cuore e non il cuore al servizio della norma. E' uno dei messaggi essenziali che numerosi amici cristiani mi hanno ricordato sul cammino.

[1] PACS è la sigla del nuovo strumento di regolarizzazione delle convivenze istituito dallo Stato francese. Si tratta di un contratto concluso tra due maggiorenni, di diverso o di uguale sesso finalizzato all’organizzazione della loro vita in comune. (n.d.t.)

[2] Vennero chiamati “harkis” quegli algerini arruolati nell’esercito francese che parteciparono, da quella parte, alla guerra che condusse all’indipendenza del loro paese. (n.d.t.)

[3] “Essere un musulmano europeo” di prossima pubblicazione.

<<< Scheda introduttivo <<<

Scheda introduttiva Introduzione Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6
 
* Jacques Neirynck e Tariq Ramadan: Possiamo vivere con l'Islam?

Prima edizione italiana ottobre 2000 / shaban 1421 © Edizioni " Al Hikma" 2000 per la traduzione italiana

Ed. “Al Hikma” C.P. 653, 18100 Imperia Tel. 0183.767601, fax 0183.764735 e-mail: alhikma@uno.it

Titolo originale dell’opera " Peut-on vivre avec l’ Islam" © Édition FAVRE SA 1999 Lausanne, Suisse

Il libro può anche essere acquistato a vantaggiose condizioni sul sito: www.libreriaislamica.it

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