Possiamo vivere con l'Islam?
Il confronto fra la religione islamica e le civilizzazioni
laiche e cristiane.
di Jacques Neirynck e Tariq Ramadan
Titolo originale dell’opera: "Peut-on vivre avec l’ Islam"*
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Scheda introduttiva | Introduzione | Capitolo 1 | Capitolo 2 | Capitolo 3 | Capitolo 4 | Capitolo 5 | Capitolo 6 |
Capitolo 2 La pratica dell'Islam JACQUES NEIRYNCK La nostra prima conversazione era arrivata ad una constatazione. Le tre religioni monoteiste, il giudaismo, il cristianesimo e l'islam hanno molte più cose in comune che differenze, più somiglianze di quanto pensino, al punto che ci si dovrebbe chiedere perché esse siano sempre vissute in uno stato di antagonismo larvato o dichiarato. Il punto di convergenza è la fede in Dio UNO, anche se a volte ci sono stati dei malintesi sulla formulazione di questa fede, i cristiani facendo un gruppo a parte nel sostenere che Dio si è incarnato, il che è inaccettabile per i musulmani o per gli ebrei. Tuttavia è ancora piuttosto facile accordarsi su questo punto, che è abbastanza astratto da non provocare conflitti di interesse materiale. Diventa invece difficile stabilire relazioni tra le diverse culture quando non ci si occupa della fede nella sua purezza, ma della pratica religiosa. Esiste una diversità nelle pratiche religiose che riflette, ovviamente, le diversità di cultura, ciò che si chiama acculturazione di una fede. Questo è vero per l'islam come per il cristianesimo. L'islam praticato in Afghanistan non è l'islam dell'Indonesia. Esistono differenze profonde. In questa seconda conversazione parleremo specificatamente delle pratiche, sapendo che esse sono importanti nel caso dell'islam. Si potrebbe con una formula un pò astratta dire che l'islam non è un'ortodossia, è un'ortoprassi. Il problema non è avere la giusta dottrina. Il problema è avere la giusta pratica. Ed in questo senso l'islam è radicalmente diverso dal cristianesimo dove le diatribe tra ortodossi ed eretici hanno costituito l'essenza della storia. Ci si è sgozzati reciprocamente per dimostrare che ci sono tre persone in Dio oppure no, che le anime sono predestinate o meno alla salvezza. Dunque, per l'islam non c'è eresia nella dottrina, anche tra diverse confessioni, ad esempio tra sunniti e sciiti. E' vero, allora, che sunniti e sciiti sono d'accordo sull'essenziale? Una pratica unanime TARIQ RAMADAN Sì, certo. Ci sono divergenze dottrinali tra le diverse correnti dell'islam ma non hanno la stessa importanza che nel cristianesimo, per esempio. La differenza nella pratica- come lei ha messo in evidenza- è veramente essenziale. Ci sono stati, nella tradizione musulmana, dibattiti - a volte influenzati anche dalle tradizioni greche e cristiane - sui fondamenti della religione, in particolare su quella che si chiama 'aqidah, che tratta infatti del contenuto della fede in quanto tale, ed anche su ciò che riguarda i nomi e gli attributi divini. Ci sono stati dibattiti che hanno portato a volte a separazioni tra coloro che si chiamano Ahl as-Sunnah, che sono considerati i rappresentanti della "ortodossia" maggioritaria, e movimenti divergenti come gli sciiti o i razionalisti che restano comunque all'interno della referenza e della tradizione islamiche. Queste diatribe molto raramente portano ad esclusioni. La differenza dottrinale tra sciiti e sunniti non è inizialmente di natura teologica, anche se, dopo la separazione, posizioni specifiche di sostenitori dell'una o dell'altra parte hanno potuto portare ad una divisione di questa natura. All'inizio si trattava di gestire la successione del Profeta: per alcuni Ali, che era allo stesso tempo genero e cugino del Profeta, avrebbe dovuto naturalmente succedergli per il suo lignaggio ed anche per il suo valore. Per i sunniti la successione doveva seguire la scelta della comunità ed onorare la persona più competente senza riferimento ai legami di sangue. J.N. Affinché sia chiaro, gli sciiti sostengono di essere fedeli alla successione di Ali, i sunniti invece prendono le distanze da questo tradizionalismo. Ali non è stato che il quarto califfo, mentre i primi tre non appartenevano alla stessa discendenza del Profeta. Il califfo Ali è circondato da molte leggende che ne fanno il grande assente nell'islam. Talvolta si dice che tornerà. Gli sciiti lo credono? T.R. Ci sono diverse scuole nel ramo sciita. Fondamentalmente si conoscono le due grandi tradizioni di coloro che si chiamano i duodecimani ed i settimani che si riferiscono rispettivamente al numero di imam che essi riconoscono nella storia, prima che avvenga il fenomeno della "grande occultazione" dell'imam, che segna un periodo di assenza fino ai tempi del ritorno del Mahdi. Ci sono anche gli zaiditi, presenti oggi nello Yemen. All'interno di queste tradizioni ed ai loro margini, molti si sono allontanati tantissimo, fino ad idolatrare la persona di Ali. Questi ultimi non sono riconosciuti dai sunniti. Resta il fatto che, tra la maggioranza degli sciiti ed i sunniti, sul piano dei fondamenti dottrinali, l'essenziale è il più delle volte conservato. Esistono divergenze sui testi di riferimento, il posto dei compagni, la questione dell'autorità religiosa e politica, l'infallibilità dell'imam e l'imamato in generale. La tradizione sunnita segue l'idea che la scelta deve essere fatta dalla base, mentre gli sciiti difendono la successione di sangue, dall'alto, e questo innesca un sistema vicino a quello della gerarchia ecclesiastica. Si conosce l'esempio dell'Iran per via delle etichette dei dignitari che formano una sorta di istituzione religiosa molto gerarchizzata con titoli come ayatollah o mollah. Comunque sciiti e sunniti si parlano, pregano insieme, si rispettano e difendono fondamentalmente il principio centrale del Tawhid (unicità di Dio) con le stesse pratiche quotidiane della preghiera, della zakah, del digiuno, e si ritrovano insieme a La Mecca per il pellegrinaggio. La percezione globale del modo di vita islamico è la stessa. J.N. Più tardi parleremo della difficoltà di adattare queste pratiche in una società occidentale. Dunque, sunniti e sciiti osservano un certo numero di pratiche sulle quali sono perfettamente d'accordo e che, in fondo, costituiscono la distinzione tra chi è musulmano e chi non lo è. Anche in Occidente se si chiede ad un inesperto, questi può elencare i cinque pilastri della pratica islamica. I cinque pilastri ricalcano la pratica della maggior parte delle religioni. C'è, ovviamente, l'atto di fede per cominciare, poi la preghiera, il digiuno, il pellegrinaggio e l'elemosina. Ma nel quadro dell'islam tutte queste pratiche assumono un significato particolare. Ritornando sui cinque pilastri, potrebbe spiegare di ciascuno che cosa ha di simile alla pratica corrispondente nella maggior parte delle religioni e, soprattutto, che cosa lo differenzia. Il primo pilastro la testimonianza di fede Cominciamo dal primo, La testimonianza di fede, che è in fondo il passo volontario attraverso il quale si entra nella comunità. T.R. Sì. E' la shahadah, letteralmente l'attestazione, la testimonianza del fatto che l'essere umano, donna o uomo, riconosce, attesta che non c'è altro dio all'infuori di Dio. E' il riconoscimento della verticalità fondamentale, il riconoscimento della presenza del Creatore che lo rende musulmano. Nel suo significato letterale, musulmano vuol dire: "sottomesso alla presenza del Creatore". J.N. Il termine islam vuol dire "sottomissione"? T.R. Esatto, sottomissione. Due ragioni essenziali rendono importante questa formulazione. Sicuramente il riconoscimento della presenza del Creatore, ma anche, su un altro piano, la Sua unicità ed il fatto che si affida la propria vita al Creatore. E' la prima parte della formulazione: attesto che non c'è altro dio all'infuori di Dio, mentre la seconda è: e che Muhammad è Suo inviato. Si tratta del riconoscimento della presenza nella storia di inviati e profeti l'ultimo dei quali è Muhammad, secondo la concezione musulmana. I commentatori ed i sapienti musulmani (‘ulema’) hanno messo in evidenza che questa formula racchiude il riconoscimento del ciclo intero dei profeti, dall'origine fino all'islam, il cui messaggio è considerato universale, confermando coloro che l'hanno preceduto nell'essenza stessa della fede nel Dio unico. L'ultimo Profeta, l'abbiamo già detto, reca un messaggio di conferma, di riforma e di completamento. Sono queste due sfere, una della verticalità, l'altra dell'orizzontalità, con la testimonianza dei profeti attraverso la storia, che entrambe fanno entrare l'essere umano ed il suo cuore in un rapporto spirituale ed intimo con il Creatore, associandolo alla comprensione del senso della storia. Quest'ultimo punto è fondamentale, perché non è sufficiente vivere un rapporto intimo con Dio. Il legame interiore con Dio, essenziale nell'islam, proietta una luce particolare sulla storia degli uomini, cioè: essere con Dio nell'istante è comprendere la storia nel suo progetto, è elaborare una visione della storia che ha una finalità, che ha un senso. J.N. Il primo pilastro che attesta la fede è in fondo il più importante. E' questo che è decisivo? T.R. Dà senso a tutti gli altri, il che vuol dire che non c'è preghiera senza testimonianza, non c'è digiuno senza testimonianza. E', secondo il consenso esplicito della comunità musulmana, ciò che rende una persona musulmana oppure no. Tanto che colui che pronuncia la testimonianza di fede non solo con le labbra, ma anche con sincerità di cuore, è di fatto musulmano. Dopo, dovrà personalmente rendere conto della sua pratica davanti a Dio rispetto agli altri quattro pilastri ed alle diverse prescrizioni. J.N. Allora è l'equivalente del battesimo per i cristiani, essendo il battesimo ciò che fa entrare una persona nella comunità cristiana. Anche l'atto di fede è quello che fa entrare qualcuno nella comunità musulmana. Questa entrata è relativamente facile, mentre la conversione al giudaismo è quasi impossibile, perché dipende praticamente da una questione di sangue. Battezzare un adulto in Europa si può, ma le chiese cristiane battezzano soprattutto bambini ad uno stadio in cui sono assolutamente incoscienti. Qual è il momento della vita in cui un giovane entra nell'islam? C'è un'età limite? T.R. Il paragone che lei ha fatto col battesimo rivela dei limiti uno dei quali è fondamentale. Nell'islam, tutti gli elementi della natura, anche quelli che non sono dotati di ragione e coscienza, sono musulmani, sottomessi per natura. Ciò significa che tutti i bambini, di qualsiasi paese e di qualsiasi religione, prima ancora di scegliere, sono naturalmente sottomessi, musulmani di fatto. Questo vuol dire che il loro essere, ancor prima della comparsa della coscienza, è per natura sottomesso all'ordine della creazione divina. La natura, gli uccelli, gli animali ed anche i bambini partecipano in modo naturale a questo riconoscimento. In una tradizione riferita al Profeta, egli dice di aver fatto un sogno nel quale aveva visto i bambini dei politeisti nel Paradiso proprio mentre i loro genitori erano in guerra contro Muhammad. Questo aveva stupito i compagni che dissero: "Ma come! Loro che ci combattono e ci perseguitano! I loro bambini vanno in Paradiso?" L'insegnamento di questa tradizione è che nessuno paga per lo sbaglio dei suoi genitori e, soprattutto, che la sottomissione dei bambini è la loro innocenza naturale. Dall'età della ragione, cioè a partire dal momento in cui un bambino ha chiara coscienza della presenza divina e della sua responsabilità personale, egli conferma col cuore e con la coscienza ciò che, prima, era nella sua natura. J.N. In fondo, è quello che si chiama l'età della ragione, all'incirca sette anni. C'è una cerimonia speciale? T.R. No, nessuna cerimonia particolare anche se a volte, come capita in certe regioni africane, si segna il passaggio. Si tratta di una caratteristica propria di certe culture ma non dell'islam. Riguardo all'età della ragione, una tradizione del Profeta dice che faceva abituare i bambini alla preghiera, ma senza alcuna costrizione, a partire dall'età di sette anni. E' necessario che la preghiera sia più presente nella loro vita dall'età di dieci anni. Queste sono raccomandazioni e per tutti gli ‘ulema’ la norma è l'età della pubertà che varia secondo gli individui ma che si aggira tra i dodici ed i quattordici anni. A partire da questa età, ciascuno diventa responsabile dei suoi atti davanti a Dio in modo proporzionale, ovviamente, al suo livello di maturità. J.N. L'entrata nella fede è caratterizzata dunque da una grande moderazione nell'islam, rispetto alla circoncisione nel caso degli ebrei o al battesimo nel caso dei cristiani. Non solo procede per fasi ma è puramente interiore, senza bisogno di un segno visibile come la circoncisione da una parte o il battesimo dall’altra. Si tratta forse di un modo per prendere maggior distanza dai culti pagani che abbondano di cerimonie d'iniziazione. Veniamo al secondo pilastro. Il secondo pilastro: la preghiera T.R. Il secondo pilastro evidenzia la vicinanza delle tradizioni monoteiste perché si tratta della preghiera. Ci sono due tipi di preghiera nell'islam, quella rituale, codificata (il secondo pilastro del quale stiamo parlando, as-salah) ed una più libera nella forma, che si chiama "invocazione" (ad-du'a). La preghiera rituale si basa sulle cinque orazioni quotidiane, che scandiscono il ritmo della vita del credente, e che si devono fare in momenti specifici, ma non nell'istante preciso come si pensa comunemente. Per la preghiera del mattino il periodo va, più o meno, da un'ora e un quarto a un'ora e mezza prima del sorgere del sole fino al sorgere del sole; è la preghiera del subh. I musulmani praticanti si alzano prima che sorga il sole per fare questa preghiera. La seconda preghiera, quella del pomeriggio, comincia subito dopo che il sole ha oltrepassato il suo zenith, fino ai due terzi del pomeriggio (più precisamente quando l'ombra di un oggetto misura il doppio dell'oggetto stesso); è la preghiera del dhohr. La terza preghiera si deve fare tra la fine del periodo precedente ed il tramonto; è la preghiera del 'asr. La quarta preghiera inizia col tramonto fino all'incirca un'ora e mezza dopo con la forte raccomandazione di compierla all'inizio del periodo; è la preghiera del maghrib. La quinta si può fare fino all'inizio del giorno successivo anche se è preferibile compierla a metà della notte; è la preghiera del 'isha. Come si può osservare esse hanno dei limiti molto precisi all’interno dei quali si può scegliere il momento in cui si possono compiere. J.N. Si prega cinque volte all'inizio di ciascun periodo? T.R. Non necessariamente all'inizio. Durante tutto il periodo anche se esistono delle preferenze per il loro compimento. E' importante saperlo perché alcuni, quando ci vedono vivere in Europa, pensano che si debba fermare tutto, stendere il nostro tappeto e pregare subito, non importa dove. Non è il caso. C'è un periodo di tempo e ci si può adattare. Aggiungiamo che ciascuna preghiera è costituita da cicli (rak'a). Al mattino, per esempio, ci sono due cicli: all'inizio si è in piedi, poi inclinati, poi prosternati, poi in ginocchio, poi si ricomincia. Questo è un ciclo. Nell'ordine le preghiere sono costituite da due cicli, poi quattro, poi ancora quattro, poi tre e poi quattro, il che fa, in una giornata, diciassette cicli. Queste preghiere hanno qualcosa di particolare e si costruiscono intorno alla recitazione del Corano. La prima surah ("capitolo") del Corano, la fatihah, è obbligatoria per ciascun ciclo mentre si aggiunge una surah o qualche versetto, a libera scelta, nei primi due cicli di ogni preghiera. Queste prescrizioni fanno sì che un musulmano impari a memoria brani più o meno lunghi del Corano. In generale l'apprendimento è rapido e ci sono moltissimi musulmani che conoscono tutto il Corano a memoria: si chiamano huffath (sing. hafiz). E' tradizione, durante il mese di Ramadan, recitare tutto il Corano nelle preghiere della notte: ogni giorno un trentesimo. Anche questo spiega il posto importante che occupa il testo sacro nella vita delle musulmane e dei musulmani. Le preghiere ritmano la vita del musulmano. E sono al contempo pause nella vita quotidiana. Perché? A che cosa servono? La rivelazione coranica risponde a queste domande: E fa' la preghiera per ricordarti di Me. Il più grande rischio per un credente, una volta che ha pronunciato la shahadah, è dimenticare, trascurare al punto di finire col fare della sua relazione con Dio un fatto annesso, secondario, marginale. La preghiera aiuta colui che ha la fede a non dimenticare. Questa è la funzione primaria della preghiera rituale che esige, quindi, una grande presenza di cuore e di coscienza. Essa è veramente centrale nella vita del musulmano, a tal punto che il Profeta ha detto che tra la fede e la negazione della fede c'è l'abbandono della preghiera. Bisogna dire ancora qualcosa su quello che abbiamo accennato poco prima, cioè le invocazioni (ad-du'a). In effetti, i credenti sono invitati ad invocare Dio in continuazione, a prendere dei tempi per pregare Dio non codificati. Sono libere, possono essere espresse come si vuole, nella propria lingua, mentre la preghiera rituale viene fatta in arabo e presuppone l'apprendimento di qualche breve surah o di alcuni versetti. Tutte le altre invocazioni sono fatte nella lingua della persona, in un dialogo intimo ed immediato con Dio. J.N. Ritorniamo un istante sulla preghiera rituale. Deve essere fatta obbligatoriamente in comunità o è solo meglio farla in comunità? T.R. E' una buona domanda. La preghiera può essere fatta da soli o in comunità. Ma c'è una tradizione profetica che dice che la preghiera fatta in comunità vale ventisette volte più che la preghiera fatta da soli. La preghiera come ciascuno degli altri pilastri della pratica musulmana, ha una doppia dimensione: quella dell'individuo, che risponde nella sua solitudine alle esigenze della sua fede, ma anche quella della comunità che si realizza nella presenza di sé per l'altro, in una pratica condivisa, in una fraternità alimentata ogni giorno. E' insomma la verticalità che non è mai realmente vissuta se non si completa con l'orizzontalità, cioè l'esigenza di comunione con gli uomini. Il termine moschea letteralmente vuol dire "luogo dove ci si prosterna" (masjid). Nel luogo in cui ci si prosterna, c'è l'idea della comunità della fede. Perciò si può fare la preghiera da soli, ma è sempre preferibile viverla in comunità. E' una dimensione molto importante, anche della nostra vita in Europa, ed è necessario che essa partecipi dell'identità del musulmano: questo sentimento d'appartenenza ad una comunità è intrinsecamente legato al fatto d'essere musulmano. Tuttavia bisogna far bene la differenza tra una comunità di fede e di spiritualità e la chiusura comunitaria. Dovremo tornare su questo argomento in una delle nostre future conversazioni. J.N. Fermiamoci un istante sul ruolo della moschea. Certamente è preferibile fare le preghiere in moschea, a meno che per una ragione qualsiasi non vi si possa accedere, dato che spostarsi durante i giorni della settimana è sempre difficile. Invece, il venerdì è il giorno in cui ci si reca alla moschea per dire le preghiere. E' obbligatorio essere presenti? T.R. Il venerdì (al-jumu'ah) è, letteralmente, il "giorno del raduno", come dice la parola araba. I musulmani sono invitati a recarsi alla moschea per adempiere alla preghiera dell'inizio del pomeriggio. E' una preghiera particolare: inizia con un discorso che fa colui che officia e guiderà la preghiera (l'imam). Dopo il discorso, si fa una preghiera eccezionalmente di due cicli, poiché si considera che il discorso abbia rimpiazzato gli altri due cicli che normalmente costituiscono questa preghiera. Essa è obbligatoria per la maggior parte delle scuole di diritto islamico ma con considerazioni che valutano la natura di quest'obbligo in funzione della situazione di ciascuno. Questa preghiera è davvero la realizzazione della preghiera rituale in comunità. J.N. Il discorso è, in genere, un commento del Corano? T.R. Non necessariamente. Può essere di qualsiasi argomento dato che è volto a risvegliare la fede nella vita quotidiana delle persone ed a risvegliare la loro coscienza ed intelligenza. E' fortemente consigliato, durante il discorso, parlare alle persone in funzione del loro ambiente e non parlar loro di cose astratte. J.N. Colui che pronuncia il discorso è un imam. Il nome designa colui che sta davanti all'assemblea. Egli è il capo della comunità oppure un letterato che viene a parlare? Qual è esattamente la sua funzione? T.R. Esistono oggi istituti che rilasciano diplomi ed officializzano il ruolo di imam per colui che ha seguito un corso determinato secondo i paesi. Spesso i governi cercano di generalizzare questo procedimento per avere il diritto di controllare chi parla nelle moschee. Questa è una realtà molto marginale. Nella stragrande maggioranza delle situazioni l'imam è colui le cui competenze sono riconosciute dalla comunità. E' quindi un uomo che ha seguito degli studi ufficiali ha una buona conoscenza dell'islam, del Corano e dei diversi campi delle scienze islamiche con una buona padronanza linguistica. L'imam non ha una funzione clericale specifica, può essere indifferentemente studente, ingegnere, medico o di tutt'altra professione purché sia musulmano, pubere, con una buona reputazione sul piano morale ed ovviamente competente. L'imam è letteralmente "colui che si mette davanti" e nell'islam deve essere scelto da coloro che stanno dietro. Si ufficializza a volte questo stato ma generalmente la gestione si fa dall'interno ed in modo informale. Capita, bisogna riconoscerlo, che questa gestione sia anarchica e mal controllata con, in più, delle lotte d'influenza che a volte portano a non rispettare i principi della competenza e della buona moralità. J.N. La cosa più stupefacente in questa organizzazione è l'assenza di gerarchia religiosa. Forse esiste in qualche posto o in certi paesi ma è essenzialmente ogni comunità che sceglie. In un certo senso, l'islam è simile alla pratica dei protestanti in cui il Consiglio parrocchiale elegge il pastore, contrariamente a ciò che avviene tra i cattolici per i quali la nomina del parroco è fatta dalla gerarchia. Al contrario, in certi paesi, per esempio nell'Iran che è sciita, la nomina degli ayatollah dipende da una gerarchia fortemente impegnata nella gestione politica del paese. T.R. E' così. E' l'influenza che deriva dal principio di discendenza del quale parlavamo prima, a proposito di Ali, che ha portato ad una sorta di gerarchia all'interno della tradizione sciita. Non esiste nella tradizione sunnita che, in generale, si attiene all'idea dell'elezione, della scelta, della cooptazione. Certamente c'è, a livello dei dipartimenti universitari e delle istituzioni, una gestione dei procedimenti di scelta, ma il principio, quale che sia la forma che assume il modello d'organizzazione, resta. J.N. I dignitari ecclesiastici, quelli che vengono chiamati mollah o ayatollah, sono in fondo dei sapienti: letterati, specialisti di diritto, specialisti del Corano. Ma in teoria non hanno una funzione ecclesiastica? T.R. Come abbiamo detto, c'è una gerarchia molto forte nella tradizione sciita con statuti specifici per i mollah o per gli ayatollah, per esempio. Anche se questa gerarchia li avvicina al clero cattolico, è bene sottolineare che il ruolo dei dignitari religiosi sciiti non corrisponde assolutamente a quello del prete, così come lo si conosce nella tradizione cristiana. Si sposano, orientano le persone, danno consigli, pubblicano opinioni giuridiche ma non costituiscono il tramite tra il profano e Dio. Troviamo altre funzioni nella tradizione musulmana: il mufti, che conosce il diritto ed emette opinioni giuridiche; il faqih, specializzato nel campo delle prescrizioni del diritto ma non necessariamente con la competenza di formulare un giudizio come nel caso del mufti; l''alim, il cui plurale è ‘ulema’, il sapiente in senso lato, dell'una o dell'altra scienza islamica, spesso diplomato in un istituto riconosciuto, il qadi, che è il giudice, ecc. Ma non c'è alcuna gerarchia nella gestione e nel rapporto di queste diverse funzioni. J.N. Lasciamo il secondo pilastro per passare al successivo. Il terzo pilastro: la zakah T.R. Il terzo pilastro è la zakah, nozione che gli orientalisti hanno tradotto con "elemosina legale". Quanto a me, sono dell'avviso che i musulmani che vivono in Europa debbano contribuire a precisare le formulazioni e le traduzioni. "Elemosina legale" è una formula costruita a partire dalla terminologia usuale del cristianesimo. Essa non corrisponde alla realtà e deve essere rivista. Nel termine zakah c'è, letteralmente, l'idea di purificazione. E' una tassa, un'imposta che ha una funzione sociale, poiché essa è prima di tutto destinata direttamente al sostentamento dei poveri, dei bisognosi, dei viaggiatori. Ha anche una funzione spirituale, quella di purificare i beni, gli averi, come la preghiera purifica l'essere ed il digiuno purifica il corpo. La zakah è quindi una tassa sociale purificatrice attraverso la quale si purifica ciò che si possiede, proprio come si deve purificare se stessi attraverso un intenso lavoro spirituale. Che cosa esprime questa tassa? Da una parte che, anche quando si è con Dio, si deve restare coscienti di quello che Egli ci dona e non dimenticare mai la relazione che abbiamo con l'Altissimo nella gestione del nostro patrimonio. Non c'è una frattura tra le due sfere. E' il senso di purificazione del quale parliamo. Esiste, certamente, anche una dimensione orizzontale, comunitaria. Lei vede che si ritrova sempre questa prospettiva. Io sono solo con Dio sapendo che Egli mi dà, ma sono con la comunità sapendo che anch'io devo dare. L'imposta sociale purificatrice equivale a ritirare il 2,5% del valore dei nostri beni (la percentuale è diversa a seconda della natura dei beni, ad esempio i beni agricoli o altro), di quelli che superano il limite dei soli bisogni necessari. Perciò, se per quello che riguarda il nostro patrimonio in denaro, non si investe e non si fa fruttare la nostra ricchezza con un'attività economica, il nostro patrimonio si riduce a ben poca cosa nel giro di qualche decennio. Due cose si devono mettere in evidenza. La zakah è un incoraggiamento all'investimento economico perché riguarda l'intero patrimonio di ciascuno. Bisogna dunque produrre ricchezza. Bisogna aggiungere inoltre che la zakah fa nascere e radica nell'uomo la coscienza di essere un membro molto solidale della società. Questa concezione, ben conosciuta in Europa, è un elemento fondatore dello spazio sociale islamico: è il diritto del povero. E’ scritto nel Corano che i credenti sono coloro che sono coscienti del: “ diritto per il povero ed il bisognoso” che c’è nei loro beni. La formula è chiara ed attribuisce: a colui che possiede, l'esigenza di dare; al povero, la dignità di ricevere e di rivendicare il suo diritto, e non di restare in attesa solo dell'inclinazione caritatevole dei suoi simili. Alla luce della trascendenza, la solidarietà si traduce in responsabilità e diritto, non nel valore della sola bontà, commossa dalla mendicità di un suo simile. Questo può accadere ma rappresenta il margine della solidarietà e non il principio. Come vede, ritroviamo qui le dimensioni della verticalità esigente e dell'orizzontalità rigorosa e sempre fraterna. J.N. Questo dono viene fatto di mano in mano, tra il donatore e colui che riceve, oppure è raccolto dalla comunità e ridistribuito? T.R. Tutto dipende dal contesto nel quale ci si trova. All'epoca del Profeta e di quelli che gli sono succeduti, a poco a poco si è costituita un'istituzione a livello statale conosciuta in seguito col nome di Bait al-mal, letteralmente, "la casa delle finanze", che raccoglieva la zakah e la distribuiva. Questo tipo di gestione era ancora attuale nell'Impero ottomano e la raccolta era o centralizzata o prelevata localmente. Oggi, la raccolta della zakah, a livello statale non esiste più, in quanto tale, in moltissimi paesi. Ormai è organizzata e gestita da associazioni locali o moschee. In queste condizioni, sta al musulmano e alla musulmana, con coscienza e dopo un esame dell’ambiente, cercare e trovare le vie migliori per versare l'ammontare della sua zakah. Se c’è un'associazione della quale ci si fida e che fa questo lavoro, le si può versare il denaro. Questo avviene già nel mondo musulmano, come in Europa o negli Stati Uniti. Alcuni preferiscono dare di mano in mano, il che è anche possibile poiché è un atto che solleva la coscienza. Bisogna comunque assicurarsi di conoscere veramente le persone o l'ambiente ai quali si dà il denaro perché bisogna evitare di agire con incoscienza e leggerezza, soprattutto perché si tratta del diritto dei poveri e non si deve negarglielo per ingenuità o negligenza. La zakah ha bisogno di associazioni e persone che se ne occupino con una buona conoscenza dell'ambiente e delle situazioni nelle quali sono attive. E' una grande responsabilità perché uno dei principi della zakah è di essere distribuita nel momento stesso in cui è prelevata. A valle della sua applicazione, essa è una pratica molto esigente dal punto di vista umano, ma anche spirituale, intellettuale e, sicuramente, in rapporto alle modalità d'azione di un dato ambiente. J.N. Lei dice bene; il diritto del povero. Non si tratta di un'imposta ecclesiastica che serve per la manutenzione degli edifici di culto ed per retribuire il personale permanente? T.R. Non è questa la sua funzione iniziale. Alcuni sapienti hanno rilevato tuttavia che, alla luce del versetto che nomina le otto categorie di persone che devono beneficiare della zakah, si può utilizzare questo denaro per le moschee o altri progetti di benessere pubblico, se sono coperti ed assicurati i bisogni dei poveri, ma questi ultimi hanno la priorità. Per noi, in quanto musulmani che viviamo in Europa, l'imposta sociale purificatrice deve servire anche al sostentamento dei musulmani in difficoltà economiche, per aiutarli ad avviare un progetto, a studiare, ad organizzare un lavoro o altro. La necessità non manca e ci impone di trovare delle vie originali per la distribuzione e, direi, per l'investimento intelligente delle somme raccolte. Sarebbe grave trasformare la zakah in una semplice donazione di carità mentre, nella sua essenza, essa è uno strumento per sviluppare l'autonomia dei più bisognosi. Siamo lontani dal gestire le cose in questo modo in Europa e questo per facilità, per pigrizia o semplicemente per mancanza di spirito d'iniziativa o d'originalità. Ci si limita a raccolte e distribuzioni che trasformano coloro che si incaricano della raccolta, associazioni o individui, in semplici intermediari distributori. E' una grave mancanza di responsabilità da parte loro perché dovrebbero, al contrario, essere promotori dell'azione sociale, dell'iniziativa economica, dello spirito d'impresa e di autonomia. Prelevare qui per spendere qui significa sviluppare una filosofia dell'azione di solidarietà e di partecipazione economica che non si riduce a gestire puntualmente un'elemosina ma piuttosto ad elaborare microprogetti economici circostanziati, destinati a svilupparsi, dinamici. Purtroppo siamo ancora lontani da questo spirito d'iniziativa. J.N. Questa elemosina obbligatoria non si deve assolutamente confondere con le tasse percepite dagli stati o dai sovrani che servono per il funzionamento dello Stato? T.R Certo. J.N. Allora, la costruzione o la manutenzione di edifici, moschee, madaris ("scuole coraniche") e lo stipendio di professori universitari, di ayatollah, di mollah sono il più delle volte a carico dello Stato e non sono finanziati da questa elemosina. T.R. Esattamente. L'imposta sociale purificatrice è davvero qualche cosa di specifico. E' un'imposta religiosa. Alcuni giuristi hanno rilevato che c'era una sola imposta nell'islam, la zakah, mentre altri, al contrario, hanno sottolineato che la zakah non deve essere confusa con la tassa, ad-dariba in arabo, perché la loro natura e la loro funzione sono diverse. Le cose, secondo me, sono più semplici: da una parte c'è un'imposta, una tassa che il credente versa come atto di fede e che ha una portata spirituale, è la zakah (l'imposta sociale purificatrice); e poi ci sono imposte che servono a far funzionare la macchina dello Stato e che corrispondono alle imposte che conosciamo nelle nostre società. Questi due tipi d'imposta si assomigliano per il loro carattere obbligatorio (è appunto il senso dell'imposta, della tassa) ma differiscono per la loro natura ed il loro impiego. J.N. Esiste dunque una netta distinzione tra lo spirituale ed il temporale: questa distinzione è molto rara nei paesi occidentali. Si preleva un insieme di imposte, che servono a tutti i tipi di funzione, in primo luogo le funzioni precipue dello stato: l'esercito, la polizia, la giustizia. Ma una buona parte delle imposte che vengono pagate in Occidente oggi servono alla solidarietà. I due obiettivi sono completamente mescolati, mentre sono ben separati nell'islam. T.R. Noti che se ci fosse bisogno, come a volte è accaduto, nulla impedisce allo stato di aggiungere un'imposta di solidarietà che non sarebbe la zakah ma che potrebbe servire per il sostentamento dei poveri se la situazione fosse troppo grave. Il margine di manovra resta molto importante e gli adattamenti sono molto flessibili. Il quarto pilastro: il digiuno J.N. Possiamo forse passare al quarto pilastro. T.R. Si tratta del digiuno del mese di Ramadan. Anche qui bisogna chiarire le cose. "Ramadan" è infatti il nome del nono mese lunare del calendario musulmano. La caratteristica dei mesi lunari è che hanno ventinove o trenta giorni, mentre i mesi solari hanno trenta o trentuno giorni, per cui ogni anno il mese di ramadan anticipa all'incirca di dieci o dodici giorni. In trentasei anni, più o meno, si fa il giro dell'anno. Durante questo mese i musulmani, da circa un'ora e un quarto prima del sorgere del sole fino al suo tramonto, si astengono dal bere, dal mangiare e da qualsiasi relazione sessuale. E' dunque un mese di rottura, rispetto alla vita quotidiana, che mira al risveglio della spiritualità ed alla coscienza della presenza di Dio. E’ la volontà, da parte del musulmano, di prendere le distanze dal mondo per avvicinarsi al Creatore dei mondi. Questa dimensione spirituale è fondamentale, è l'espressione intima della verticalità. Ma la dimensione orizzontale si presenta come il complemento indispensabile poiché colui che digiuna entra in una sorta di comunione con i poveri della terra. Senza bere, senza mangiare, è incoraggiato a dare, a condividere ed a partecipare alla vita comunitaria. La privazione del corpo è la rivivificazione dell'energia spirituale. Il versetto coranico che parla del digiuno lo inscrive nella storia delle profezie come espressione della fedeltà a tutti i messaggi precedenti:"O voi che portate la fede, il digiuno vi è prescritto come è stato prescritto a coloro che vi hanno preceduto". C'è un segreto nel digiuno, che tutte le tradizioni religiose conoscono o hanno conosciuto. E' il segreto della spiritualità vivente, sempre col suo doppio aspetto: verticalità, per la solitudine davanti a Dio, ed orizzontalità, per la solidarietà con gli uomini. J.N. Si tratta forse della pratica più spettacolare per gli osservatori esterni. Come lei ha detto, il digiuno esiste nelle altre religioni, ma c'è la tendenza ad abbandonarlo. Ad esempio, in Occidente, nelle Chiese cristiane, il digiuno e l'astinenza dalla carne, che era di regola tutti i venerdì e durante tutta la Quaresima, cioè quaranta giorni, sono stati praticamente abbandonati. Nel mondo protestante questa prescrizione si mantiene astratta e non fa parte di quelle obbligatorie. Tra i cattolici restano solo due giorni di digiuno all'anno, ma un giorno di digiuno per un cattolico significa semplicemente limitarsi ad un pasto e due spuntini. Non si tratta assolutamente di astenersi da alimenti e bevande per tutto l'arco della giornata. La pratica islamica è certo stupefacente per un cristiano. Costituisce una testimonianza di fede singolare. Non c'è alcuna confessione al di fuori dell'islam che manifesti in modo così forte la sua fede in questa occasione. Le altre religioni o gli stessi atei potrebbero almeno ispirarsi ad essa, se non praticarla. E' anche chiaro che questa prescrizione non si può applicare a tutti, ad esempio ai bambini o ai malati. T.R. Abbiamo parlato poco fa dell'età della pubertà che è il riferimento per la pratica salvo per il pagamento della zakah, che deve essere prelevata dalla ricchezza di un bambino qualunque sia la sua età. Per il ramadan, oltre ai bambini che non hanno l'obbligo di digiunare, si trovano dispense o alleggerimenti per le donne mestruate, incinte, per le persone anziane, i malati o coloro che sono in viaggio. In queste situazioni, o si recupera dopo, o si nutre un povero per ogni giorni di digiuno non effettuato. Il principio della non-difficoltà è essenziale nell'islam: Dio non ha voluto disagi per voi nella religione, si dice nel Corano. Altrove, viene anche precisato che Dio non chiede ad un essere umano più di quello che può sopportare. In quanto alla pratica ed alla sua percentuale, è vero che per quello che riguarda il digiuno, essa è impressionante. In Europa, come nel mondo musulmano, si raggiungono tassi di praticanti del digiuno che vanno dal 70% all'80%. Certo, qui si mescola tutto, la tradizione familiare, il sentimento della festa, ecc., ma resta il fatto che donne, uomini, adolescenti e bambini praticano il digiuno e che il ricordo di Dio, il sentimento della Sua presenza è conservato e approfondito in questo periodo. L’ultimo pilastro: il pellegrinaggio J.N. Passiamo all'ultimo pilastro. T.R. E' il pellegrinaggio, per il quale si chiede alla donna e all'uomo che hanno i mezzi, una volta nella vita, di recarsi a La Mecca per vivere questa esperienza. Il pellegrinaggio, ovviamente, ha la funzione di testimoniare la fede, di esser presenti nel luogo centrale, la casa di Dio sul piano simbolico, cioé la Ka‘bah. I musulmani vi si recano, se possono, e seguono un rituale fisso che comprende diverse tappe. In questo pellegrinaggio si ritrovano elementi essenziali sul piano spirituale e comunitario. Per prima cosa è d'obbligo vestirsi in modo da eliminare ogni segno di differenziazione. Ad esempio gli uomini si ricoprono con due panni bianchi senza cuciture che non fanno trasparire nulla dello stato sociale del fedele: il primo cinge i fianchi e scende fino alle caviglie mentre l’altro è intorno alle spalle. In tal modo, davanti a Dio ognuno è uguale a suo fratello. Le donne si coprono secondo la tradizione musulmana ma sempre con sobrietà e semplicità per preservare l'uguaglianza assoluta dei fedeli davanti a Dio. Il numero dei musulmani che si ritrovano a La Mecca durante l'ultimo mese dell'anno lunare, Dhu al-Hijja, è di circa due milioni, perfino di più. Quando si è lì, è estremamente impressionante. I musulmani vengono da ogni luogo con la stessa semplicità d'abbigliamento. Il primo insegnamento del pellegrinaggio è l'unione, l'unione della umma nel senso di comunità di credenti di tutto il mondo, in una visione di uguaglianza. E' la doppia testimonianza dell'individuo che da solo cammina verso Dio in comunione con i suoi fratelli e sorelle. Ciascuno arriva da un angolo del mondo e, insieme, al centro, ci si ritrova per rispondere all'appello del Creatore, il Padrone di tutto, l'Amico e l'Amato di ognuno. Insieme compiono i riti, la preghiera, la circoambulazione intorno alla Ka‘bah, l'andare e tornare tra as-Safa wal-Marwa in ricordo di Hajar, la moglie di Abramo, che cercava acqua per il figlio Ismaele, ecc. Il pellegrinaggio è una testimonianza profonda e fondamentale. Se si analizzano i quattro pilastri della pratica, ci accorgiamo che essi scandiscono il ritmo. La preghiera cinque volte al giorno e la preghiera del venerdì una volta alla settimana. Il pagamento della zakah una volta all'anno, come per il digiuno di Ramadan. E infine il pellegrinaggio, che deve essere realizzato una volta nella vita per chi ne abbia i mezzi. Al centro di questo ritmo si trova l'insegnamento dell'armonia e dell'equilibrio del credente che sa di essere solo nel suo cammino e nella sua ricerca di Dio ma il cui cuore si attacca alla "comunità delle solitudini" nella comunione di fede, la pratica comunitaria, l'amore, la solidarietà e il rispetto... J.N. Queste pratiche mancano al mondo occidentale che ha smesso di testimoniare la sua fede in modo visibile, mentre l'islam partecipa al ritmo del cosmo. L'unità cosmica è voluta da Dio perché Egli è il Creatore. E' dunque buona pratica ricordarlo ad intervalli regolari. Questa preoccupazione si ritrova nella tradizione cristiana: c'è un anno liturgico; c'è un ciclo ebdomadario coronato dalla domenica; nel caso degli ordini contemplativi, i riti della giornata riproducono in un certo modo lo schema che lei ha presentato. La sua esposizione dà una buona idea dei cinque pilastri e dello spirito col quale bisogna considerarli. Tuttavia vorrei fare qui non delle obiezioni ma delle critiche dal punto di vista dell'occidentale. Egli ammira questa fedeltà alla religione, ma si sente un pò minacciato da persone che praticano in modo così regolare e in massa. L'occidentale l'ha abbandonata. Anche se si sente cristiano, spesso fa un discorso confuso ed incerto: cristiano credente sì, ma praticante no. Considerato l'ateismo pratico degli occidentali, l'atteggiamento è schizofrenico: con le labbra si ammette una fede che ci si vanta di non praticare. Un musulmano può essere credente ma non praticante? La mancanza di pratica religiosa T.R. Questa domanda è stata oggetto di dibattiti accesi tra i sapienti ed alcuni non hanno nemmeno considerato questa possibilità tanto sembrava loro che essere musulmano si concretizzasse con la pratica. Tuttavia bisogna considerare le cose in modo concreto. Troverà pochissimi musulmani che affermano: "Io non sono credente" ma molti ammettono di non fare le preghiere quotidiane o il digiuno. Nell'islam, dal momento in cui un uomo o una donna ha pronunciato con consapevolezza la testimonianza di fede, "Attesto che non c'è altro dio che Dio e attesto che Muhammad è Suo inviato", gli viene riconosciuta la qualità di musulmano e di musulmana e nessun essere umano può attribuirsi il diritto né il potere di verificare la sincerità di questo atto di fede nel suo cuore. La pratica è la conferma di questa disposizione della quale ciascuno è responsabile davanti a Dio e nella sua coscienza. Non si tratta di costringere qualcuno a praticare ma, in una famiglia, ad esempio, la trasmissione del sapere e della comprensione di ciò che comporta l'attestazione di fede e la pratica sono responsabilità dei genitori, per permettere ai loro figli di fare la loro scelta con cognizione di causa. Ci sono oggi musulmani che hanno la fede ma non vivono la pratica: alcuni per ignoranza, altri per negligenza. La responsabilità della comunità religiosa rispetto a questa situazione, è di promuovere un'educazione religiosa che almeno permetta a ciascuno di determinarsi con cognizione di causa. Quando la non-pratica è dovuta a ignoranza o ad analfabetismo religioso, non si tratta di una libera scelta perché non c'è libertà nell'ignoranza. Tutte le tradizioni religiose condividono questa preoccupazione: è necessario rispettare la scelta di chi decide di non praticare ma bisogna anche dargli i mezzi per fare questa scelta. Quanti giovani oggi non conoscono la propria tradizione religiosa e si credono liberi di aver deciso. Ma che cosa hanno veramente deciso? E' come se avessimo mentito loro. J.N. E' chiaro che la pratica di una fede, qualunque essa sia - l'islam non fa eccezione - ha diversi scopi. Uno di essi è la Salvezza, la Salvezza ultima, la Salvezza dopo la morte. Un musulmano, non-praticante o con un certo numero di peccati gravi a suo carico, non è comunque rifiutato da Dio dopo la morte. Passa per una sorta di purgatorio. Rispetto ai cinque pilastri, ne esiste uno solo sul quale non si può transigere. Colui che nega la sua fede in Dio commette un peccato irremissibile. Colui che nega la sua fede commette il peccato inaccettabile che non viene perdonato. T.R. Il versetto coranico è esplicito su questo punto:"Dio non perdona che a Lui si associ alcunché, ma al di fuori di ciò perdona a chi vuole (tutti gli altri peccati)". Il principio dell'unicità di Dio (at-Tawhid) è fondamentale nell'islam e Dio non perdona che Gli si associ un essere o un'altra divinità o che semplicemente si neghi la Sua esistenza. Al di là di ciò è detto che Egli perdona tutto. In un altro versetto si dice:"Dì ai miei servi che hanno commesso peccato a loro detrimento:"Non disperate del perdono di Dio poiché Dio perdona tutti i peccati"". Questa stessa idea si trova nella celebre formula riportata da una tradizione in cui Dio dice:"La Mia misericordia precede la Mia collera". Il secondo ed il terzo nome di Dio sono "ar-Rahman" e "ar-Rahim" che rispettivamente significano il "Compassionevole" e il "Misericordioso". La dimensione del perdono è molto importante e centrale nell'islam. Da essa nasce la speranza direttamente nutrita dal senso della testimonianza dell'unicità divina. Al di là di questa comprensione, non abbiamo niente da aggiungere in quanto esseri umani: la relazione tra Dio ed il credente non può essere sottoposta ad alcuna valutazione. Noi chiediamo che Dio accolga i morti, che perdoni i loro peccati ma Egli è il giudice del Quale tutto ci dice che è il Buono, il Perdonatore, il Dolce, il Generoso, pieno d'amore per le creature. Questi sono proprio alcuni dei novantanove nomi con i quali è conosciuto. J.N. Esiste dunque una preghiera per i morti. Quello che diceva poco fa ricalca una formula che è allo steso tempo ebraica e cristiana e che, a mio parere, deve risalire alla religione d'Abramo:"Dio è lento alla collera e pronto al perdono". L'autore della dannazione è l'individuo stesso che, fino all'ultimo minuto, rifiuta Dio e Lo allontana. Si danna da sé. Non è Dio che giudica. Non è Dio che condanna. Questa convinzione è fondamentale. E' stata riscoperta tardi dal cristianesimo, che ha predicato a lungo la religione del giudizio di Dio, di fronte al quale nulla sta senza tremare. Forse potremmo parlare brevemente della non-pratica. Che cosa accade ai non-musulmani che costituiscono una minoranza in un paese musulmano? Non sono considerati in base al primo pilastro, se no diventerebbero musulmani. Sono considerati in base agli altri pilastri? T.R. Non vengono tenuti in conto per nessuno dei pilastri che sono prescritti ai musulmani. Nemmeno la zakah poiché l'imposta purificatrice è un'imposta religiosa, fondata su un atto di fede. Un ebreo, un cristiano, una persona di qualsiasi altra tradizione non la devono pagare. Dalla redazione della Costituzione di Medina, all'epoca del trasferimento di Muhammad in questa città, era chiaro che ciascuno è sottomesso alla pratica della sua tradizione religiosa e deve essere rispettato nella sua identità. Nelle società musulmane, nel corso della storia, si è pensato a sistemi di tassazione differenziati e compensatori per tutto quello che riguardava la solidarietà. A più riprese il califfo Umar ha aiutato ebrei e cristiani in difficoltà economiche con i fondi dello Stato. Il sistema di aiuto e solidarietà fu pensato in funzione del contesto e l'adattamento è la regola dal momento che rispetta il diritto delle minoranze di veder tenuto in considerazione il loro credo, protette le loro pratiche religiose e riconosciuti i loro diritti. Questi includono, ovviamente, il diritto alla solidarietà sociale, del quale ogni cittadino deve poter beneficiare in caso di necessità. J.N. Ciò significa, in poche parole, che il non-musulmano non paga la zakah ma un'altra imposta dello stesso ammontare e che servirà ad altro. T.R. Non paga la zakah, ma si può pensare ad un'altra imposta ai fini della solidarietà sociale. Il Corano e la pratica del Profeta fanno riferimento ad un'altra tassa chiamata jizyah che maldestramente è stata tradotta con "testatico". E' di diversa natura rispetto a zakah e corrisponde alla partecipazione finanziaria delle minoranze in cambio della protezione da parte dello Stato. J.N. Una sorta di tassa militare per coloro che non prestano servizio nell'esercito? T.R. Sì, esattamente. I membri di una minoranza religiosa non sono tenuti, in una società a maggioranza islamica, ad impegnarsi militarmente per difenderla. Viene loro richiesta, quindi, una tassa militare in cambio della loro protezione. Questo sistema è conosciuto in Europa. Numerosi governi l'hanno applicata in questo senso poiché la prelevano solo per gli uomini adulti e non per le donne, i vecchi e i bambini. In due casi l'uomo si vede dispensato dal versamento: o si impegna militarmente e allora la tassa non ha più ragione d'essere, o lo Stato è incapace di assicurare la protezione dei suoi soggetti e non preleva questa imposta. Si conoscono diversi casi riportati nella storia del diritto islamico in cui il governatore ha restituito le somme prelevate della jizyah poiché non era in grado di rispettare il contratto della tassa militare in cambio della protezione. Islam, religione senza sacramenti J.N. Vorrei sottolineare una particolarità che non sempre viene percepita: nei cinque pilastri non c'è assolutamente il concetto di sacramento nel senso in cui si trova in certe confessioni cristiane,un segno sensibile che comporta un beneficio spirituale purché ci sia comunanza di fede tra colui che lo dà e colui che lo riceve. Questo non può essere un simulacro. Si entra a far parte di una Chiesa cristiana col battesimo anche se si è totalmente incoscienti, come lo sono i bambini, battezzati molto prima dell'età della ragione. Se si confessano i peccati nelle Chiese cattoliche o ortodosse, si viene immediatamente assolti. Esistono riti analoghi nella fede musulmana? T.R. Qui tocchiamo un punto molto sensibile riguardo alla differenza di concezione e di fede che esiste tra la religione cristiana e quella musulmana. Per essere chiari, si tratta del rapporto tra il sacro ed il profano, del ruolo del sacramento, appunto. Nell'islam questa distinzione non trova un corrispettivo della concezione cristiana. A partire dal momento in cui mi ricordo di Dio, io accedo intimamente alla dimensione sacralizzata: il profano è semplicemente l'oblio ed il sacro non ha bisogno di alcun sacramento. Ogni atto diventa sacro a partire dal momento in cui si fa nel ricordo dell'Altissimo e non c'è alcuna cerimonia particolare che segna il passaggio dal profano al sacro. Si tratta semplicemente del passaggio dallo stato naturale alla coscienza della creazione alimentata dall'idea della "sottomissione" di sé e degli elementi: tale è il segno dell'entrata nel sacro. La linea di demarcazione è esteriormente molto tenue ma segna una disposizione fondamentale dell'intimità: ogni atto, all'apparenza profano, diventa sacro, tramite lo stato di coscienza che lo produce. Per quanto sorprendente possa suonare ad orecchie abituate alle categorie della filosofia occidentale, il prodotto della facoltà della ragione è sacro nell'islam se è accompagnato dalla coscienza della presenza del Creatore. Le antitesi conservate nella storia delle mentalità occidentali del tipo: fede opposta a ragione o religione opposta a razionalismo, sono inoperanti nell'islam. L'antitesi fondamentale è qui ricordo opposto ad oblio. La fede o la ragione nell'oblio errano o si perdono; la fede o la ragione, nell'intimità del ricordo, confermano e sacralizzano. Infatti, ogni atto della ragione o contratto sociale al quale si è aggiunto il ricordo di Dio diventa sacro, senza bisogno di altro sacramento. Nell'islam non c'è il sacramento del matrimonio poiché è un contratto tra due esseri i quali, stipulando le loro rispettive condizioni e il loro accordo nel ricordo di Dio, includono il carattere sacro della sua applicazione. Così avviene sul piano individuale. Non c'è bisogno di altra testimonianza che la sincerità del proprio cuore per passare dal profano al sacro. Salutare il prossimo nel ricordo della trascendenza è diverso che salutare un amico nel campo ristretto di una relazione riconosciuta e confermata. La formula del saluto musulmano, As-salamu alaykum wa rahmatullahi wa barakatuhu, "Che la Pace, la Misericordia e la Benedizione di Dio siano con te", è un'altra cosa che "Buongiorno!" o "Ciao!". Essa esprime il saluto-ricordo, il senso di una relazione ormai sacralizzata. Le altre prescrizioni dell’islam J.N. Occupiamoci ora delle altre prescrizioni, che non sono pilastri, ma che costituiscono comunque pratiche importanti. Ne esistono seicentotredici nell'ebraismo. Nel diritto canonico della Chiesa cattolica ci sono millesettecentocinquantadue articoli. Quante prescrizioni ci sono nel Corano? T.R. Tutto dipende dai tipi di prescrizioni di cui si parla. Se per prescrizioni intendiamo gli articoli di diritto, ci accorgiamo che esiste una divergenza tra i sapienti specializzati. Alcuni dicono che non ce n'è più di centocinquanta. Altri avanzano la cifra di duecentoventi ed i più esaustivi nell'interpretazione dei testi arrivano a cinquecento o seicento. Tutti concordano nel rilevare che, tutto sommato, il numero delle prescrizioni giuridiche è molto ridotto e che il Corano prevede soprattutto, oltre alle prescrizioni di culto di cui abbiamo parlato, orientamenti generali che hanno bisogno di un'intelligenza umana sempre attiva per poterli adattare ai cambiamenti di luogo e di epoca. J.N. Parliamo di alcune di queste prescrizioni così come vengono percepite dall'esterno, per distinguere a quale livello si situano. E' prescritto dal Corano? E' ammesso da tutti i musulmani? Oppure è un'espressione locale? Mettiamo da parte tutto quello che riguarda la condizione della donna e parliamo prima del resto. La macellazione rituale: c'è una carne che è halal. E' lo stesso sistema della carne kasher, cioè si dissangua l'animale prima di ucciderlo. T.R. Non è esattamente la stessa cosa della tradizione ebraica. Nell'islam c'è un rituale che prevede chiaramente che non si può uccidere un animale senza aver prima invocato il nome di Dio. Si dice quindi: Bismillah, Allahu akbar, che vuol dire: In nome di Dio, Dio è il più grande. Questo significa che non si uccide di propria iniziativa, senza ragione, ma davanti a Dio con l'intenzione di nutrirsi. Questo ricordo, ancora una volta, ci pone nell'ordine della sacralità e indica chiaramente che uccidere un animale, per un motivo diverso dal nutrimento, non è permesso salvo eccezioni, come per proteggersi, ad esempio. Rispetto alla prescrizione della carne halal, oggi si trovano, a grandi linee, due pareri giuridici. Alcuni sapienti dicono: è necessario che i musulmani possano compiere quel tipo di macellazione e si può mangiare solo la carne sacrificata secondo questo rito, sia che si tratti di manzo, montone, pollo o selvaggina (il maiale è assolutamente proibito in tutte le sue forme). Altri sapienti, sulla base di un'interpretazione particolare dei versetti che si riferiscono a questa questione, dicono che i musulmani possono mangiare la carne delle genti del Libro e che, al momento della consumazione, devono semplicemente dire, Bismillahi ar-Rahman ar-Rahim, "In nome di Dio, il Compassionevole, il Misericordioso. Le divergenze riguardano diversi punti molto precisi: ad esempio il fatto di sapere se le genti del Libro restano genti del Libro anche se non praticano o non credono in Dio. E' chiaro che esiste un margine d'interpretazione sul sapere ciò che è prioritario nell'appartenenza. Altri elementi spiegano le divergenze e, di conseguenza, non esiste una posizione unica. Ciò non ha nulla a che vedere con le dispute alle quali si assiste in diversi paesi riguardo all'etichetta halal apposta sulle carni e che sono talvolta in relazione alla possibilità di disporre di un mercato economicamente interessante. La regola qui è chiara: ci sono persone sincere che fanno un lavoro di controllo severo che bisogna incoraggiare ed altri che, per cupidità o negligenza, gestiscono la situazione con il solo scopo di guadagnare. Dichiarano il falso sulla merce e bisogna denunciarli. Una parola ancora per la Svizzera dove si incontrano grandi difficoltà, poiché la macellazione islamica è proibita, per cui la carne viene dall'estero. In questa situazione, ad esempio, alcuni sapienti hanno detto: poiché la macellazione rituale non è possibile, a maggior ragione è consentito consumare la carne delle genti del Libro. J.N. Questa prescrizione è osservata più o meno a seconda del grado di fedeltà del musulmano, un pò come il cibo kasher presso gli ebrei? Alcuni mangiano kasher ed altri no. E' lo stesso tipo di relazione con la carne halal? T.R. Alcuni cercano di rispettare le prescrizioni della loro religione e questo mi sembra una cosa buona. Così facendo seguono l'avviso che a me pare il più appropriato, tanto più che è facile oggi procurarsi la carne halal. Altri decidono di mangiare la carne di manzo o di altri animali autorizzati recitando la formula che ho ricordato. Ebbene, non sono trasgressori dell'islam poiché alcuni sapienti ritengono che ne abbiano perfettamente il diritto. J.N. Abbiamo ricordato poco fa la proibizione della carne di maiale, che avvicina l'islam alla pratica ebraica in questo campo. Esiste dall'inizio. E' anche una prescrizione coranica. Ed è una proibizione assoluta. Del resto, è una proibizione perfettamente comprensibile nel Medio Oriente, poiché i maiali si nutrono di rifiuti che trasmettono malattie. E' evidente che riflettendo così razionalizzo come un occidentale. Lei percepisce qualcos'altro in questo divieto oltre a quello che ho detto, cioè una ritualizzazione di una prescrizione igienica, un modo per evitare che il popolo si ammali? T.R. Ogni prescrizione può avere due letture. C'è una lettura di fede, potremmo dire, che si attiene alla considerazione che "è proibito perché Dio l'ha proibito" senza alcuna interpretazione razionale. Si tratta, in breve, di riconoscere una prescrizione per quello che è. Ci si può, del resto, inoltrare in altri tipi di interpretazione che per alcuni hanno un senso ed un valore. E' ciò che hanno fatto molti sapienti musulmani che, come ha fatto lei, hanno spiegato obblighi ed interdizioni alla luce dell'igiene o altro. Tuttavia non sono arrivati a sottomettere la prescrizione alla sola lettura razionale permettendo di rendere caduco un divieto o un comandamento perché, ad esempio, il clima è cambiato. La ragione chiarisce ma non è la procedura che conferma o smentisce la prescrizione. Quest'ultima non può essere ridotta alla sola razionalità, essa è partecipe di un "rivelato" che la razionalità può relativamente comprendere ma che la oltrepassa. L’ossessione del puro e dell’impuro J.N. Vorrei che lei stabilisse un parallelo con un'ossessione che esiste nel giudaismo e specialmente tra gli integralisti: l'ossessione del puro e dell'impuro. Hanno una lista interminabile di cose che sono pure e di cose che sono impure, di gesti che si possono fare e di gesti che non si possono fare. C'è l'impurità della donna che ha partorito, l'impurità della donna mestruata, l'impurità del morto o del malato. L'impuro implica chiaramente delle prescrizioni igieniche. Quando qualcuno muore di peste o di lebbra, bisogna passare la calce nella casa. Ma nella società d'oggi per alcuni ebrei è diventata un'ossessione. Dal punto di vista pratico non ha più molto significato. Le prescrizioni del cibo kasher sono molto costrittive: anche se gli alimenti sono kasher, non li si può cucinare in una pentola che ha contenuto cibi non kasher o in una pentola della quale non si è certi se essa abbia mai contenuto altro che cibi kasher. Si ha la sensazione che le prescrizioni rituali siano totalmente sconnesse dalla realtà d'oggi e che esse siano il risultato di una fedeltà ossessiva ad una pratica ancestrale. Questo tipo di ossessione si sviluppa anche nell'islam? T.R. Certo, c'è la preoccupazione di rispettare quello che è effettivamente proibito e quello che non lo è. Ma l'ossessione della purezza fino a torturarsi lo spirito non traduce l'orientamento degli insegnamenti dell'islam. Bisogna restare esigenti ma sempre in equilibrio tra l'intenzione sincera di fare il proprio meglio e la necessità di non appesantire inutilmente la vita quotidiana con regole insormontabili. Esiste una raccomandazione del Profeta che giustamente ci insegna a separarci da questa tendenza della tradizione ebraica evitando le questioni inutili e spesso scabrose. Insomma, un musulmano, nel cuore della sua preoccupazione di restare fedele, impara che la pace di un'intenzione sincera deve precedere e prevalere sull'ossessione del dettaglio sospetto. J.N. Quindi, a parte la proibizione del maiale, non ce ne sono altre che riguardano certi tipi di pesce? T.R. Il maiale, quello che abbiamo detto sulla carne halal, le carni dalle quali non si sia lasciato uscire tutto il sangue. Queste sono in concreto le prescrizioni fondamentali dell'islam. La proibizione dell’alcol J.N. L'islam ha potuto fare a meno dell'alcol. Ci sono due modi di considerare l'alcol in Occidente. Prima di tutto è una disgrazia, bisogna ammetterlo. In certi paesi mediterranei di tradizione cristiana, il fatto che la speranza di vita per gli uomini sia più corta che per le donne deriva dall'abuso dell'alcol, spesso accompagnato dal tabagismo. Ma esiste un altro aspetto dell'alcol: specialmente nei paesi latini, è sinonimo di convivialità, sinonimo di buon gusto, sinonimo di artigianato, anche d'artigianato artistico in alcune rinomate località vinicole. Nel nord del Mediterraneo esiste una cultura del vino. Vino, che è qualcosa di simbolico poiché per i cristiani in particolare, nel sacramento dell'Eucaristia o nella Cena, rappresenta il sangue di Cristo. Nel sud del Mediterraneo troviamo una cultura che adotta un atteggiamento esattamente opposto, con il beneficio evidente che non vi è alcolismo. Per me, in quanto occidentale e in quanto cristiano, astenermi dal vino coinciderebbe con una, per così dire, perdita della gioia di vivere. Faccio fatica a conciliare questa astinenza con l'immagine che mi faccio dell'islam così concentrato sulla gioia di vivere e così poco incentrato sull'austerità. T.R. L'islam non si oppone al benessere e alla gioia di vivere. Riguardo all'alcol la prescrizione è chiara, è nel Corano. La proibizione è stata fatta in modo pedagogico nel corso di una decina d'anni. Dapprima è stato messo in evidenza il fatto che ci sono più svantaggi che vantaggi nella consumazione dell'alcol. Il secondo versetto rivelato dice:"Non avvicinatevi alla preghiera se siete ebbri, finché non siate in grado di capire quello dite". Infine la terza tappa, che è l'ultima, introduce chiaramente la proibizione della consumazione. Per tutti i musulmani questa proibizione è chiara e definitiva. Dio solo sa se oggi, osservando quello che accade nel mondo, capisco ciò che significa il messaggio della prima fase: per l'uomo, il bere reca più svantaggi che vantaggi. Inoltre si aggiunge un concetto fondamentale per il musulmano: benessere non è sinonimo di oblio, di negligenza e di perdita della lucidità. Al contrario. La gestione sensata della vita dovrebbe orientare l'uomo verso una gioia di vivere serena, dignitosa, umana. Insomma si tratta di esprimere, al fondo della gioia, una certa idea che si ha dell'uomo. Trovare la gioia e il buonumore nell'oblio di sé e nella perdita della lucidità è riconoscere una concezione molto povera, molto triste della vita, della gioia e del benessere interiore. J.N. Lei ha enunciato i due punti di vista in base ai quali ci si può astenere dall'alcol. Ma, in un certo senso, è un gesto di penitenza, un gesto di astinenza, un gesto di digiuno. E' una sorta di digiuno perpetuo? T.R. No, assolutamente. Vorrei soprattutto sottolineare il fatto che c'è un'atteggiamento fondamentale nella percezione islamica della vita, che si pone al livello dello stato di lucidità. Ciò che comunemente si può concepire come due stati opposti, cioè la lucidità e la gioia di vivere, non hanno assolutamente questa connotazione nella tradizione musulmana. Si può esser felici di esistere, senza dimenticare che si esiste e senza dimenticare questa lucidità dell'essere. Infine, la sfida della gioia di esistere è di restare lucidi e di gustare intimamente e profondamente il piacere di essere qui. La nostra concezione della vita si oppone al divertimento estremo in cui, poiché non si sopporta più di essere un uomo, si finisce col cercare il piacere fine a se stesso, col rischio dimenticare anche i tratti fondamentali della nostra umanità e di agire nel modo più insensato e più folle. Non soltanto come bestie, poiché bisogna dire che gli animali hanno più dignità che certi nostri simili nel loro modo di vivere e di concepire il piacere e la gioia di vivere. Certi eccessi sono spaventosi. Preservare la propria coscienza, la propria lucidità, la propria profondità di cuore e dell'essere non vuol dire opporsi ai divertimenti, alla gioia, al piacere. La Rivelazione e Muhammad ci insegnano a non dimenticare la nostra parte di benessere in questa vita. Infine, direi che la dignità del divertimento sta nel fatto di non essere oblio pur producendo benessere. J.N. Vorrei citare un aneddoto che mi è stato raccontato da Jean Crettenand, un esperto enologo svizzero, a proposito di un collega tunisino che egli stima molto e che lo va a trovare di tanto in tanto. Il rituale della degustazione del vino, anche qui per un enologo occidentale, è un rituale in cui non si assimila vino: lo si mette in bocca, lo si annusa e poi lo si sputa. E' una procedura assolutamente rigorosa e che permette di valutare la qualità di un vino proprio come se lo si bevesse. Se al termine di una seduta di degustazione condotta in questo modo, si facesse un prelievo di sangue, non vi si troverebbe alcol. Il collega tunisino, che ha un atteggiamento molto purista in questo campo, annusa, ma si rifiuta di mettere addirittura l'alcol in bocca. E' lì la frontiera? Il peccato inizia nel momento in cui si mette l'alcol in bocca, anche se non si deglutisce, per avere semplicemente il gusto? T.R. Bisogna stabilire un limite. Il consumo di alcol è proibito nell'islam ed è chiaro che c'è un rischio a mettere in bocca un liquido il cui consumo è severamente proibito. L'uomo in questione agisce dunque con saggezza e logica. J.N. Allo stesso modo in cui lei ha misurato il grado di fedeltà rispetto ai pilastri, qual è il grado di fedeltà del musulmano riguardo alla proibizione dell'alcol, sia in un paese musulmano che qui in Europa? T.R. Bisogna distinguere le situazioni. Nei paesi a maggioranza musulmana si osserva una grande fedeltà a questa prescrizione, per il fatto che il commercio del vino è molto circoscritto. Si trova in alcune regioni dei paesi musulmani, in particolare nell'Africa del Nord, ma non è la maggioranza. Tra i giovani della seconda, terza, perfino quarta generazione che vivono in Occidente, la percentuale di consumo è più elevata. Questo aumenta ovviamente nelle periferie e nei quartieri dove i giovani non hanno un inquadramento sociale né un'educazione religiosa. Vi si trova anche un consumo notevole di droga. Alcuni che evitano l'alcol non evitano la droga. J.N. Vorrei ricordare lo stato del non-musulmano in un paese a maggioranza musulmana. Conosco la situazione in Marocco e in Tunisia, dove la cosa non costituisce un problema. Ci sono vigneti ed il turista straniero può bere vino, che tra l'altro è eccellente. Al contrario, in Arabia Saudita, c'è la repressione più totale. Il non-musulmano che consuma alcol, subisce una punizione. T.R. Lei cita l'Arabia Saudita: bisogna dire che la gestione politica di questo paese è tutto quello che c'è di più torbido nei confronti di tutti gli stranieri e tra loro i musulmani, in particolare i Filippini ed i Pakistani; ciò non tocca soltanto le minoranze religiose, non dimentichiamocelo. Facendo riferimento ad una tradizione del Profeta che dice:"Non ci saranno due religioni nella penisola arabica", il governo applica una gestione a suo dire fedele alla lettera della suddetta tradizione ma che in realtà, applicata in tal modo, è un tradimento dell'insegnamento fondamentale dell'islam. In città come La Mecca e Medina, che sono centri religiosi particolarmente sacri, è legittimo rispettare la specificità del culto musulmano. Ma dal momento che si fanno arrivare stranieri di altre religioni altrove nel paese, che li si installa per vivere e lavorare, è islamicamente inconcepibile che si impedisca loro di praticare la propria religione. E' il minimo di libertà che è loro dovuta. E questo per quanto riguarda il quadro generale. Quanto al consumo d'alcol, non si può impedire a donne e uomini di consumarlo in forma privata ed è inconcepibile punirli per uno sbaglio che non è tale per la loro coscienza. Dal momento che rispettano la società in cui vivono, hanno diritto alla loro libertà di coscienza, di pratica e di consumo con la clausola, conosciuta nelle società europee, di non disturbare l'ordine pubblico secondo i criteri della suddetta società. Per l'alcol, come per tante altre cose, il governo saudita rivela le sue contraddizioni e le sue ipocrisie. Reprime e punisce i più poveri e gli stranieri, Pakistani, Filippini o altri, applicando una chiara discriminazione di fronte alle altre religioni per legittimare la sua apparente gestione "islamica", mentre certi principi continuano ad avere un vero e proprio commercio immorale, dove l'alcol, la prostituzione ed i video più osceni contendono il posto alle trattazioni finanziarie più dubbie ed oscure. Una vergogna taciuta da molti regimi in Occidente che la tollerano e, addirittura, la sostengono, in nome di interessi economici e politici. Noi tutti, sia musulmani che occidentali, non ne usciamo bene ed il silenzio non è il migliore esempio della nostra dignità. Quanto alla sua domanda, bisogna essere chiari: è escluso nell'islam, sul piano della pratica religiosa, proibire a una persona di una data confessione di consumare una bevanda o un alimento che non è proibito dalla sua religione. Le droghe e il tabacco J.N. Lei ha accennato poco fa al problema della droga. L'atteggiamento del musulmano riguardo alla droga è uguale per estensione a quello riguardo all'alcol? T.R. Sì. I sapienti sono andati per analogia. Dapprima hanno desunto dal testo coranico i principi essenziali sui quali si fonda l'insieme delle prescrizioni islamiche legate alla proibizione e all'obbligo. Sono stati messi in evidenza cinque principi: la protezione della religione, la protezione dell'integrità della persona, la protezione del suo spirito, la protezione della sua famiglia (figli, genitori, eredità, ecc.) e infine la protezione dei suoi beni. Sulla base di questi principi e dei loro orientamenti si è potuto legiferare sulle situazioni nuove, sconosciute all'epoca del Profeta. La proibizione dell'alcol dipende dai danni che questa bevanda può produrre sullo spirito e sulla salute, ed è chiaramente anche il caso della sigaretta e delle droghe: per analogia e per estensione, sono quindi considerate proibite. I giuristi hanno a volte avuto opinioni divergenti sul grado della proibizione: certi hanno usato il termine haram, "proibito", altri makruh, "detestabile", poiché esiste un certo timore tra i sapienti ad utilizzare il termine haram. E' piuttosto una questione di terminologia, ma il punto è che sia la sigaretta che la droga sono considerate proibite. Ciascuno è debitore davanti a Dio del modo in cui mantiene il suo corpo e la sua salute, doni che il credente ha il dovere di rispettare. Sul piano legislativo dunque, questo modo di procedere esige un'applicazione fedele e razionale per ogni nuova situazione, per ogni nuovo prodotto. J.N. Comunque questa prescrizione è recente, perché anche in Occidente trenta o quarant'anni fa, nessuno si rendeva conto dei danni provocati dalla sigaretta. Quando all'epoca, ho visitato la Turchia, il Maghreb, il Libano, ho visto che la gente fumava, e molto. T.R. Certo. E' un costante lavoro di analisi e adattamento. La scienza e la medicina ci informano sui nuovi prodotti e le loro conseguenze sul piano umano o fisico; bisogna dunque legiferare con cognizione di causa. Non ci si deve fermare solo alla droga o alla sigaretta. Il discorso si amplia anche alle medicine, che sono sottoposte alla stessa metodologia, sia che si tratti di neurolettici, antidepressivi, sonniferi, ecc. Ogni prodotto si vede attribuire un valore etico riguardo alle sue diverse utilizzazioni e conseguenze. Sapienti e medici musulmani lavorano insieme, come nel caso dei diversi campi delle scienze e del sapere per orientare verso il benessere e premunirsi dagli eccessi. I sacrifici rituali J.N. I sacrifici di animali per l'Aid-el-kabir pongono regolarmente dei problemi in Occidente, perché l'animale deve essere ucciso dal padre della famiglia. C'è un conflitto con le esigenze di igiene imposte all'estero ai mattatoi. Che cosa ne pensa? T.R. Il sacrificio è un atto raccomandato (sunnah) e non è obbligatorio in senso stretto. Non è per forza il padre che deve sacrificare e del resto capita molto spesso che sia la donna ad occuparsene Si incontrano effettivamente dei problemi in Francia o in Belgio, mentre le cose sono meglio organizzate in Inghilterra. Molti musulmani insistono sul fatto di poter praticare il sacrificio del montone in memoria del sacrificio d'Abramo, e vorrebbero farlo in condizioni dignitose e igieniche. Non trovando luoghi appropriati, alcuni lo fanno in modo disordinato e senza tante precauzioni. Nell'islam è proibito far soffrire gli animali ed è necessario compiere questo rituale con ponderazione, dignità e ordine. Bisogna individuare le condizioni migliori per farlo e perciò promuovere un dialogo tra i musulmani e le collettività locali per gestire a dovere il problema. E' triste e grave vedere esponenti di partiti di estrema destra, come in Francia con le proposte di Brigitte Bardot, strumentalizzare questo disordine per cercare di confermare il fatto che i musulmani sono dei veri e propri "macellai" avidi di mattanze e di sangue. Le associazioni che difendono i diritti degli animali hanno ragione su un punto: non si possono lasciar fare le cose nell'anarchia. Ma vanno troppo lontano quando affermano che è una pratica da bandire. Quanto ai musulmani, hanno a volte il torto di percepire dalla critica solo il fatto che, ai loro occhi, "la gente non ama l'islam". La realtà è che bisogna garantire i diritti dell'animale, gestire il sacrificio a livello locale e fare in modo che, nel pieno rispetto della pratica islamica, vengano garantite le condizioni di igiene e di buona organizzazione. Secondo me solo il dialogo permetterà di fare dei progressi e credo che le responsabilità ricadano su tutti quanti. Si può allo stesso tempo rispettare la convinzione dei musulmani e il diritto degli animali. E' soprattutto una questione di volontà politica. Un’applicazione ragionevole delle prescrizioni J.N. Insomma, lei enuncia qui un grande principio: lasciando da parte i cinque pilastri, le altre pratiche, la sunnah, obbligano il musulmano nella misura in cui ci si può conformare, nella misura in cui la società è pronta ad accettarla. Perciò non deve mostrarsi intransigente su queste prescrizioni. E' giusto? T.R. In ogni situazione la misura è sempre quella della necessità e questo vale anche per i cinque pilastri. Abbiamo visto che ci sono delle estensioni nell'adattamento. Nella nostra pratica è un principio che esige, in ogni cosa, il fatto di restare ragionevole. E' la coscienza dell'uomo che gli permette di sapere in quale momento bisogna essere ragionevoli. La necessità detta legge nell'islam; ad esempio, se si è in pericolo di morte, diventa obbligatorio mangiare maiale o bere alcol se questo ci può salvare la vita. La protezione della vita ha priorità sul rispetto delle prescrizioni, se questo rispetto può portare alla morte. Ci è chiesto di cercare di rispettare tutti gli obblighi ma dobbiamo sempre tener conto del contesto della vita, e questo per rispettarli nel modo migliore. Allo stesso tempo si cerca di adattarli se necessario o di pensare a ordinarli per fasi. Ciò non vuol dire che si corre il rischio di rinunciare alla pratica, cosa che certi musulmani, a volte, possono essere spinti a fare. No. Si tratta di essere coscienti dell'importanza della prescrizione, rispettando il contesto ed il quadro nei quali si vive. Con il dialogo le cose si aggiustano. Non riesco ad immaginare un contesto, se non in un sistema di dittatura intransigente, nel quale non si arriva a trovare un terreno d'intesa. Bisogna dialogare. Bisogna conoscersi reciprocamente. J.N. Sono molto colpito da quello che lei dice sul carattere ragionevole che si deve adottare nell'osservare le prescrizioni. Anche nel primo pilastro, la testimonianza di fede? Se un musulmano cade nelle mani di un pagano, può scegliere tra abiurare ed essere ucciso? O è tenuto ad accettare il martirio? T.R. No. Deve, anche in questa circostanza, fare atto di "ragionevolezza", se così si può dire. In pericolo di morte, sotto la persecuzione, può dire con la bocca ciò che non è nel suo cuore, per preservare la sua vita. Ciò facendo, non commette peccato e quello che ha dovuto dire per salvarsi non conta davanti a Dio. Ogni atto fatto sotto costrizione non è considerato da Dio per ciò che appare. "Egli conosce il contenuto dei cuori". J.N. Questo è contrario alla pratica del cristianesimo ai suoi albori, quando numerosi martiri sono morti in circostanze atroci per aver rifiutato di osservare il culto dovuto agli imperatori romani. La stessa situazione è stata vissuta anche nel giudaismo. Al tempo dell'occupazione di Israele da parte dei Greci durante gli ultimi due secoli prima della nostra era, ebrei sono stati martirizzati solo per aver rifiutato di mangiare maiale e questa fedeltà alla fede nel suo aspetto più rituale è stato considerato esemplare. Nell'islam non c'è un desiderio di martirio? Un musulmano non diventa perfetto essendo martire? Non è questo l'obiettivo? T.R. Non c'è il culto del martirio fine a se stesso e non per quello che riguarda la sola pratica. Il martirio resta comunque una dimensione importante nell'islam nel quadro della resistenza contro l'oppressione, contro la tirannia, per la protezione del proprio essere e/o della propria terra. Questa è la testimonianza vera della fede. Dapprima si devono prendere in considerazione tutti i mezzi pacifici e tutte le soluzioni possibili, ma quando non ci sono altre vie d'uscita bisogna accettare di difendere la propria fede, la giustizia, la libertà a costo della vita. Il martirio fine a se stesso è proibito perché, in fondo, si tratta di una forma di suicidio; ma il martirio per difendere la propria convinzione quando è oppressa, la libertà quando è negata, la giustizia quando è conculcata, allora sì. Questa è la vera testimonianza, ash-shahada, il segno della sincerità e della profondità. J.N. Per fare un contrasto, vorrei ricordare una delle grandi personalità del cristianesimo, Teresa d'Avila, una grande santa ed una delle quattro donne dottori della Chiesa cattolica. Quando ha compiuto tredici anni, aveva una sola idea in testa: andare con suo fratello in Marocco per farsi martirizzare. Esiste nel cristianesimo soprattutto latino un'attrazione per il martirio. Si cerca il martirio perché in esso si ha almeno la certezza di essere salvati. Nella mentalità cristiana l'incertezza sulle condizioni della salvezza personale è molto pesante se raffrontate alla mentalità musulmana. |
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Jacques Neirynck e Tariq Ramadan: Possiamo vivere con l'Islam?
Prima edizione italiana ottobre 2000 / shaban 1421 © Edizioni " Al Hikma" 2000 per la traduzione italiana Ed. “Al Hikma” C.P. 653, 18100 Imperia Tel. 0183.767601, fax 0183.764735 e-mail: alhikma@uno.it Titolo originale dell’opera " Peut-on vivre avec l’ Islam" © Édition FAVRE SA 1999 Lausanne, Suisse Il libro può anche essere acquistato a vantaggiose condizioni sul sito: www.libreriaislamica.it |
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