Possiamo vivere con l'Islam?
Il confronto fra la religione islamica e le civilizzazioni
laiche e cristiane.
di Jacques Neirynck e Tariq Ramadan
Titolo originale dell’opera: " Peut-on vivre avec l’ Islam" *
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Capitolo 5 Al centro del dibattito Il singolare mito di Prometeo JACQUES NEIRYNCK Leggendo il suo libro “L'islam, le face à face des civilizations” sono rimasto molto colpito da questo passaggio che, a mio parere, opera la distinzione centrale tra il cristianesimo e l'islam. "Il cammino in avanti dell'umanità, a parte le epoche buie di oscurantismo e sottomissione, si fa "con la luce di Prometeo": la figura del titano, in quanto espressione meglio realizzata del rifiuto dell'ordine divino imposto e l'affermazione dell'autonomia e della grandezza umane, attraversa le età e forma la relazione complessa e tesa che c'è tra Dio (nella lettura cristiana) e gli uomini". Abbiamo già ricordato più sopra come il cristianesimo occidentale, cattolico o protestante, sia stato profondamente influenzato dal pensiero ellenistico, il pensiero greco della decadenza. Il cristianesimo ha la sua fonte originale nel giudaismo, che è originario del Medio Oriente e che fa parte della grande scoperta del monoteismo. Tuttavia, ha operato così tanti prestiti dal paganesimo greco-romano che a volte fa fatica a conciliarli. Tutta una serie di miti greci, che hanno del resto un valore universale, sono stati incorporati nel cristianesimo fino al punto che non si fa più la distinzione tra ciò che è veramente l'insegnamento di Gesù e il prestito che si è preso dall'ambiente nel quale questo messaggio si è diffuso. Questi prestiti conferiscono alla tradizione cristiana il suo aspetto straziante, troppo spesso centrata sul rimorso, la tristezza, l'espiazione, la sofferenza e la morte. A volte si fa fatica a capire il messaggio di salvezza, di vita e di gioia che costituisce la sua essenza. Lei evoca nel suo libro il mito di Prometeo e sottolinea che dal punto di vista dei greci, Prometeo ha causato l'irruzione del male nel mondo. Secondo l'interpretazione di Esiodo che lei cita, lontano dall'essere un benefattore dell'umanità, Prometeo è il responsabile della decadenza attuale. Egli inventa il fuoco e viene condannato da Zeus ad essere esposto su una montagna dove un'aquila divora il suo fegato che si riforma incessantemente. Tra Prometeo inchiodato alla roccia e Gesù crocifisso, si è tentati a fare l'assimilazione. Si potrebbe del resto evocare il mito parallelo di Dedalo, l'ingeniere che costruisce il labirinto per rinchiudervi il Minotauro e che fabbrica delle ali affinché suo figlio Icaro ed egli stesso possano fuggire. Icaro si brucia ai raggi del sole ed annega in mare. I Greci, che furono eccellenti ingenieri, non hanno accolto le loro invenzioni con serenità. Per loro, ogni tentativo dell'uomo di sfuggire al proprio destino viene ripagato dalle vendette divine. Sulla civiltà greca, che in fondo è terribilmente pessimista, pesa una maledizione. Gli uomini si contrappongono agli dei, fondamentalmente cattivi, perversi o volubili e la dignità dell'uomo consiste nel ribellarsi a loro. Si potrebbe cominciare col Prometeo di Eschilo e continuare fino a L'homme revolté di Camus. C'è una continuità straordinaria tra i due. Quel mito che è forse il mito fondatore del cristianesimo, si pone completamente al di fuori dell'islam, e del resto anche del giudaismo. E' davvero sorprendente. Se si considera Gesù sulla croce, nell'interpretazione classica egli viene distrutto, sacrificato per soddisfare la vendetta di suo Padre. Si trova nella situazione di Prometeo rispetto a Zeus, con la differenza essenziale che non si ribella ma acconsente al suo supplizio. Se di fronte a questa immagine della crocefissione poniamo la scoperta del Dio unico, del Dio buono, del Dio misericordioso, è chiaro che ci troviamo davanti ad una contraddizione totale. L'interpretazione tradizionale del sacrificio sanguinoso della croce, voluto dal Padre per riscattare il peccato originale, è molto più vicino al mito greco che alla scoperta giudaica del monoteismo. A partire da questo retroterra storico si pone un singolare problema. Anche se il cristianesimo è una religione fondata su una contraddizione interna, questa rivolta non costituisce forse il motore della rivoluzione scientifica ed industriale degli ultimi secoli? L'uomo ribellatosi agli dei finisce per insorgere contro la natura. Si fissa come scopo di costruire una tecnonatura, infinitamente superiore alla creazione divina. Tanto peggio per la natura, tanto peggio per l'ecologia. Non è qui la linea di frattura essenziale tra l'islam ed il cristianesimo? TARIQ RAMADAN Qui lei tocca davvero il punto cruciale. Lo scopo della riflessione sulle civiltà e sui loro fondamenti proposta nell'opera da lei citata, era di mettere in evidenza questa differenza fondamentale. E' la figura di Prometeo e di quello che ne seguirà, proprio all'interno del campo di rappresentazione cristiano. Se andiamo fino al fondo dell'impresa prometeica, si perviene a quello che lei ha sottolineato: e cioè, l'atteggiamento di ribellione rispetto ad ogni autorità, perfino rispetto alla natura, che sfocia nella possibilità di dominare quest'ultima in modo autonomo e illimitato. Significa possedere il fuoco, più precisamente essere "il ladro del fuoco", nel senso in cui l'intenderà l'indomabile Rimbaud. Questi riferimenti esistono nel profondo della tradizione cristiana, anche in modo frammentario, ma il prestito è evidente. Anche la concezione del tragico ne è un esempio. Nel mio libro parlo della storia di Abramo, del passaggio in cui gli viene rivelato che deve sacrificare suo figlio per compiacere Dio. Il sacrificio è riportato dalle tre tradizioni, ebraica, cristiana e musulmana con qualche differenza, una delle quali è fondamentale: la dimensione della prova solitaria e tragica non esiste assolutamente nel Corano. Qui Abramo dice la verità a suo figlio, gli parla e vivono la prova in due: il figlio confortando il padre ed incoraggiandolo a rispondere alla chiamata di Dio, nell'accettazione del proprio destino. Questo atteggiamento rende impossibile la tragedia dell'incomprensione e sicuramente impedisce la rivolta esistenziale davanti al decreto divino. Nulla di questa angoscia o di questa ribellione appare nella tradizione musulmana. Si tratta di pervenire all'accettazione, testimonianza della vera fede, prova che la luce del cuore ha aperto le porte dell'intelligenza. Si tratta di giungere a questa armonia, all'accettazione, anche nell'incomprensione. C'è qui l'idea che la ragione umana non sia la fonte di una ribellione ma la conferma di una fede. Perché la fede nell'islam precede la nascita dello stato di ragione. Abbiamo già detto qualcosa a questo proposito in una precedente conversazione. J.N. Con la grande difficoltà per i cristiani di riuscire a conciliare le due. Il cristianesimo occidentale vive un conflitto perpetuo tra ragione e fede, che finisce regolarmente molto male per la fede. T.R. Sì. L'islam non ha conosciuto un tale conflitto perché le due facoltà dell'uomo non sono mai state presentate come antinomiche, al contrario. All'inizio questo ha provocato uno slancio formidabile ed un entusiasmo per la ricerca scientifica, tanto era chiaro per i musulmani che un maggior sapere equivaleva ad una fede più radicata, più profonda. Inoltre, molto spesso il sapere si sviluppava in nome e a vantaggio di una migliore pratica religiosa. E' il caso dell'astronomia, ad esempio, con lo studio dei cicli lunari, importantissimi per fissare i momenti del digiuno. Nonostante ciò, la spinta iniziale ha conosciuto seri ostacoli nel corso della storia per diverse ragioni socio-politiche. Ma c'è una cosa che lei sottolinea e che credo sia molto pertinente. E' che l'accesso alla ricerca scientifica in Occidente si è realizzato contro l'autorità religiosa, cioè, una volta che si è sbarazzato dell'intralcio religioso e morale, il campo era libero per la sperimentazione: tutto diventava permesso o quasi. In terra d'islam questa liberazione non si è verificata perché i dati del problema non erano affatto gli stessi. Non c'era un'autorità religiosa che impediva l'attività scientifica, dal momento che le relazioni tra fede e ragione non erano conflittuali, come abbiamo visto. Perciò l'attività scientifica non si è mai totalmente separata dalle considerazioni etiche; in terra d'islam i limiti restavano, mentre l'Occidente, per accedere al dinamismo che conoscevano i musulmani, aveva dovuto liberarsi di tutto l'intralcio dogmatico e per estensione morale. Questo può spiegare come, a partire dal XII secolo, ma più chiaramente dal Rinascimento, la scienza conosca un tale progresso in Europa: si sviluppa ormai senza riferimento religioso o in modo totalmente autonomo davanti ad un mondo divenuto oggetto di conoscenza, oggetto di dominio. Mai questo tipo di rapporto è prevalso nell'islam perché il limite dell'etica è rimasto molto radicato e perché il mondo, certamente "oggetto" di conoscenza, è rimasto comunque "soggetto", testimone di una creazione da rispettare. Non credo che il mondo musulmano possa vivere lo stesso sviluppo dell'Occidente - a meno che non tradisca tutti i suoi riferimenti. Certo, il progresso può essere una buona cosa ma non quando viene esercitato senza limiti né rispetto. Ora, al cuore della tradizione musulmana, ciò che ieri senza dubbio l'ha un pò frenata rimane una concezione del mondo e dello sviluppo intimamente legata all'esigenza di senso, di valori, di etica: in breve, di limiti. La disarmonia e la frattura che esistono oggi tra l'uomo ed il pianeta sono in totale contraddizione con gli insegnamenti dell'islam. Siamo davanti all'esigenza di trovare le vie di uno sviluppo che si fondi allo stesso tempo sul dominio ma anche su una concezione etica di questo dominio. Gli insegnamenti islamici ci orientano verso il rispetto di questo equilibrio. Un vero dialogo di civiltà, che coinvolga anche i musulmani presenti in Europa, dovrebbe includere tali questioni fondamentali: sarebbe un possibile contributo da parte dei musulmani che non possono fare a meno di riferirsi ad una tradizione del rispetto dei limiti. Il paradosso dello sviluppo occidentale J.N. Bisogna ora affrontare il problema dello sviluppo, perché esso è un'applicazione di quello che lei ha appena detto. Semplificando eccessivamente, si può dire che dal VII al XII secolo nel confronto tra l'islam ed il cristianesimo, l'islam è in vantaggio. Prima di tutto un vantaggio politico: conquista un territorio enorme, si accampa sui luoghi dai quali è partito il cristianesimo alla conquista dell'Europa e poi del mondo. Politicamente questa vittoria appare scandalosa ai cristiani, il che del resto scatenerà le crociate. Ma l'islam ha anche ereditato da tutto il mondo ellenistico. Alessandria è in quel momento il centro intellettuale del mondo. E' il solo luogo in cui sono esistite, sotto l'egida dei Tolomei, l'embrione di una università, una biblioteca, dei laboratori, un giardino botanico, una facoltà di medicina che praticava la dissezione. Durante tutto questo periodo quindi, l'islam è il centro scientifico del mondo. Non ci sono università in Occidente. Le prime fanno la loro comparsa solo nel XII secolo. I giovani europei vanno nei paesi musulmani per apprendere la medicina, per apprendere il diritto, un pò come gli Africani oggi. E poi, a partire dall'XI secolo si produce una rottura. L'Occidente diventa conquistatore, scopritore, commerciante e missionario. Le otto crociate formano una serie di spedizioni estremamente aggressive, attraverso le quali gli Europei del Nord-Ovest, Franchi, Inglesi e Tedeschi attaccano e saccheggiano questo centro di civiltà che sopravviveva nel Vicino Oriente. A partire dal XV secolo l'invasione del pianeta non si volge più soltanto verso l'Oriente: i Portoghesi circumnavigano l'Africa ed iniziano a commerciare con l'Asia, mentre gli Spagnoli invadono le due Americhe e liquidano le civiltà precolombiane. Dal XV al XX secolo, fino ad ora, è l'Occidente in vantaggio. Questo costituisce un enigma storico. Che cosa è successo tra l'XI ed il XV secolo che fa perdere lentamente all'islam la sua forza di espansione e lo fa regredire? I sultani di Granada perdono tutta la Spagna nel 1492. Gli Ottomani riescono ancora a conquistare i Balcani e ad arrivare alle porte di Vienna fino al XVII secolo. Ma la situazione dell'islam alla fine della Prima Guerra mondiale, nel 1918, è una catastrofe totale. O i paesi sono colonie come l'Indonesia, il Pakistan, il Sudan, la Libia, o sono protettorati come la Tunisia, l'Egitto, la Siria. Quando godono di una indipendenza teorica, come i paesi della penisola araba o l'Iran, questi sono di fatto dei protettorati petroliferi. Dal 1918 al 1945 l'islam è interamente in balia dell'Occidente. La grande paura attuale dell'Occidente si cristallizza intorno al fatto che l'islam cerca oggi di riconquistare la sua indipendenza, non solo formale, dal punto di vista politico, ma anche reale dal punto di vista economico e culturale. Le rivolte di Mossadegh, di Nasser, di Ben Bella, di Gheddafi, di Khomeini, di Saddam Hussein punteggiano questa epopea di liberazioni successive che non sono ancora tutte terminate. Il possesso del petrolio costituisce evidentemente la vera posta in gioco di questa liberazione. Bisogna affrontare prima di tutto questo enigma storico. Che cosa è successo tra l'XI ed il XV secolo perché si producesse un'inversione, un capovolgimento? Che cosa ha incitato la civiltà "cristiana" a svilupparsi più velocemente dell'altra? Le virgolette qui sono d'obbligo perché ci si domanda in quale misura questo sviluppo frenetico si colloca nella logica del cristianesimo. T.R. Dobbiamo determinare due tipi di cause per rispondere alla sua domanda: le cause endogene relative alla società islamica che possono spiegare questo declino e le fratture più direttamente legate all'evoluzione rispettivamente dell'islam e e dell'Occidente. Se ci si attiene ad una breve analisi dell'evoluzione della civiltà islamica, ci si accorge che c'è stata una serie di fattori che hanno dato inizio al declino dopo secoli di rigoglio religioso, intellettuale ed in senso più ampio culturale. Nulla sembrava fermare, all'inizio, la curiosità dei musulmani ed il loro spirito d'iniziativa. Ma l'ampiezza dei territori da amministrare, la lenta ma profonda corruzione dei principi, degli emiri e dei sultani in costante conflitto, i nuovi sterili dibattiti di pura filosofia speculativa, ai quali bisogna aggiungere l'entrata degli ulema nel periodo buio dell'imitazione (taqlid) e delle interminabili glosse sul piano del diritto e della giurisprudenza, fanno precipitare la sclerosi e la caduta. Si è anche evidenziato il fatto che l'autorità è passata da una dinastia all'altra, da araba a non araba, dai Mammelucchi ai Selgiuchidi, con, in particolare, la presa di potere degli Ottomani. Sulla valutazione di quest'ultima credo che l'analisi sia solo parzialmente fondata, poiché è sotto l'autorità degli Ottomani, in particolare con Sulayman il Magnifico, al-Qanuni, il "legislatore", che si ritrova nel XVI secolo qualche cosa come il respiro, lo spirito d'iniziativa e soprattutto la gestione sociale e politica dell'epoca d'oro. Si può anche ricordare la spiegazione di Ibn Khaldun, che, nella sua Introduzione alla Storia Universale, parla del necessario ed inevitabile declino delle civiltà, per cui sarebbe un fattore del tutto naturale. Bisogna anche dire una cosa sull'evoluzione dell'Occidente che ha vissuto un rinascimento riscoprendo una parte del suo passato precristiano. E' attraverso traduzioni e commentari di autori arabo-musulmani che scopre l'eredità della cultura greca ed in particolare la figura di Aristotele. Più tardi si è voluto attribuire agli arabi il semplice ruolo di traduttori, ma ciò non corrispondeva alla realtà: gli occidentali che leggono Aristotele nel Medio Evo, leggono il pensiero di Aristotele rivisto, commentato, già in qualche modo interpretato da molti pensatori musulmani, tra i quali, certamente, il celebre Averroè. Quest'ultimo non fu un "traduttore", né prima di lui furono semplici "commentatori" al-Kindi, al-Farabi o Avicenna: troppo spesso è stato occultato l'apporto fondamentale dei musulmani alla costruzione del pensiero occidentale. Il loro contributo è del resto alla base dell'accesso dei filosofi e dei teologi europei alla libertà ed autonomia della razionalità. Come abbiamo detto poco fa, quello che nella civiltà islamica era rimasto un connubio tra fede e ragione, nella tradizione cristiana sarà vissuto come un divorzio. Difficile, burrascoso, causa di odio ed esclusione, questo divorzio permetterà alla ragione di liberarsi, a tappe poi quasi totalmente, dall'influenza del dogma e di elaborare un sistema di pensiero anch'esso autonomo. Con il razionalismo avviene anche, per dirlo con il titolo dell'opera di Bachelard, La formazione del pensiero scientifico e, in fondo, del progresso tecnologico. Questo fenomeno si unisce allo sviluppo della potenza politica, militare ed economica e con le premesse dell'azione coloniale ed imperialistica. L'Occidente ha preso a prestito dal mondo musulmano gli strumenti ed il metodo del pensiero libero in un momento della storia in cui, rispetto alla tradizione cristiana maggioritaria ma anche grazie alle condizioni oggettive riunite, tutto era pronto per permettere lo slancio. Libera da ogni impiccio, la "trasgressione nell'innovazione" era limitata solo dal possibile o dall'impossibile ed andava ormai ben al di là di ciò che il pensiero musulmano poteva immaginare, considerata la natura delle relazioni che fede e ragione continuavano ad alimentare. Questo momento di rottura e capovolgimento è fondamentale. Spiega l'arresto nell'evoluzione del pensiero islamico ed anche la rivoluzione che ha dato vita al Rinascimento in Europa. Il pensiero razionalista, cartesiano, autonomo che noi difendiamo oggi in Occidente ha le sue radici in questo terreno, in modo quasi naturale contro il "religioso" percepito come "autoritario" e "dogmatico". E' questo che porta al pensiero del progresso e dell'evoluzione tecnologica. Si è potuto pensare che il progresso e l'elaborazione tecnologica non conoscessero fine. Il paradosso oggi è che si vede tornare, come giustamente afferma il filosofo delle scienze Michel Serre, la preoccupazione morale. Si può cercare di far riferimento ad una morale razionale o all'etica - il termine greco sembra più tecnico, meno religioso, forse meno scioccante per certi orecchi - ma il fatto svela la stessa realtà: il bisogno di limiti. Ci si attribuisce il diritto di arrivare fino a che punto? Ogni giorno il pianeta ci mostra l'insensatezza della nostra gestione ed il progresso scientifico e medico ci fa tremare al solo pensiero di ciò che domani sarebbe oggettivamente possibile. Il ritorno alla questione etica interessa in primis il mondo musulmano poiché il senso del limite e della selezione nell'innovazione fa parte della sua stessa identità. Quello che ieri ha fermato la civiltà islamica potrebbe oggi permetterle di avanzare di più. La stagnazione storica dell’islam J.N. Non anticipiamo le cose. Vorrei prima chiarire la questione sulla grande crisi dell'islam. Uno dei fattori è senza dubbio lo spostamento del centro politico dell'islam da Baghdad a Istanbul, da arabi, che sono gli inventori dell'islam, a un popolo che è un pò barbaro, proveniente dalle steppe dell'Asia, come tutti gli invasori e che in particolare non padroneggia la lingua araba come supporto naturale. Vorrei formulare delle domande forse da ingegnere. L'Occidente ha conosciuto grazie all'islam tutta una serie di invenzioni che sono servite al suo sviluppo e che è riuscito a spingere fino al massimo delle loro potenzialità. La bussola, la polvere da sparo, il timone di poppa, la stampa. Tutte queste tecnologie sono pervenute all'Occidente solo passando attraverso il mondo musulmano. E' sorprendente vedere il mondo occidentale utilizzarli in modo assolutamente estensivo mentre il mondo islamico serve solo come intermediario, senza alcuna velleità di sviluppare da sé queste tecniche. Vorrei insistere in particolare sul fenomeno delle scoperte geografiche. I popoli che hanno unificato il pianeta sono occidentali, in particolare i portoghesi e gli spagnoli all'inizio, poi gli inglesi ed i francesi. Si sono lanciati in un'impresa assolutamente straordinaria anche se gli obiettivi erano estremamente confusi. Certo, c'era molta rapacità. I conquistadores erano pendagli da forca, ma sulle caravelle si trovavano anche religiosi che si spostavano per ragioni missionarie, per predicare la fede. Le tecniche con le quali erano state costruite le giunche cinesi permettevano ai marinai cinesi di percorrere tutto l'Oceano Indiano. Queste tecniche sono state applicate in Occidente in modo molto più audace, al punto che i Portoghesi hanno fatto il giro del mondo. Quando Vasco da Gama ha circumnavigato l'Africa, ha incontrato all'altezza di Zanzibar navi arabe e cinesi. Ma mai le navi arabe o cinesi hanno fatto il viaggio in senso inverso per venire a gettar l'ancora a Cadice o a Lisbona. Pur considerando lo spirito di violenza e di mercantilismo che hanno accompagnato tutte queste operazioni, non si può che essere sorpresi dallo sforzo di espansione della fede cristiana che è straordinario rispetto a quello che avrebbero potuto fare le altre due grandi civiltà dell'epoca, cioè l'islam e la Cina. Lo trovo stupefacente e anche strano. L'islam aveva dimostrato nel VII secolo di essere in grado di avere un'attività missionaria. Ma improvvisamente, nel momento in cui si apre il mondo, questa attività non si manifesta più. Dunque, non può trattarsi solo di una crisi politica. C'è qualche altro fattore? T.R. Non dimentichiamo che il fervore e l'energia del VII secolo erano nutriti dalla forza della convinzione spirituale. Si portava testimonianza e si trasmetteva un messaggio, l'ultimo secondo la concezione musulmana, cioè con una dimensione universale. A poco a poco questo fervore è scomparso ed i problemi interni si sono moltiplicati. E' una delle cause oggettive di una sorta di accartocciamento. Bisogna anche notare che i musulmani sono stati grandi viaggiatori e che l'espansione dell'islam spesso è stata fatta con la presenza di commercianti itineranti, come in numerose regioni dell'Africa dell'Ovest e dell'Asia. Le scoperte, i progressi, le iniziative non erano determinate da un potere forte e gli sforzi non erano orientati in nome di una politica ben chiara. E' esattamente il contrario per l'Europa che ritrova un'energia che gli antichi limiti non possono più ostacolare. O meglio, il progresso e le scoperte vengono messe al servizio d'una politica di potenza ed espansione coloniale che dà loro una chiara legittimità agli occhi dei re e dell'autorità ecclesiastica. Le motivazioni dei primi musulmani non erano fondate su una volontà di potenza e di colonizzazione. Spesso, infatti, le autorità locali mantenevano i loro privilegi. Questo non ha nulla a che fare con l'espansione europea del Medio Evo le cui motivazioni sono chiare quanto alla volontà di acquistare potere, ricchezze e terre. Di fronte a questo spiegamento di forze, si ha l'obbligo di constatare, secondo me, che la civiltà islamica non aveva le risorse religiose, morali, politiche e militari per tener testa o semplicemente per resistere alle nazioni europee. J.N. Possiamo arrivare fino al fondo di questo ragionamento. Contemporaneamente alle grandi conquiste, allo sviluppo tecnologico preso in prestito dall'estero, l'Occidente inventa l'economia moderna. Non c'è una società anonima, in grado di mobilizzare capitali importanti senza accettare il prestito ad interesse. Ma ha dovuto farlo! Perché il prestito ad interesse era originariamente interdetto ai cristiani come ai musulmani. Questa attività è stata affidata agli ebrei, che erano mal visti proprio a causa di ciò. Ogni volta che diventavano troppo ricchi, i cristiani recuperavano tutti i loro beni ricorrendo a un pogrom. Ma questi rapporti di scontro non costituiscono evidentemente la base di un'economia dinamica. Non si può uscire da un'economia prevalentemente rurale senza accettare i meccanismi necessari per accumulare il capitale tra le mani di dirigenti industriali. Intorno al XII secolo, il cristiano che prestava denaro contro versamento di interessi era sicuramente dannato. La situazione sembrava irrimediabilmente bloccata. E' allora che in Occidente alcuni teologi inventano il purgatorio. Questo luogo intermedio tra il cielo e l'inferno permette di salvare dopo un dato termine coloro che fanno prestiti pagando un'espiazione temporanea. Grazie a questa astuzia teologica, un banchiere può guadagnare tutto sulla Terra senza perdere tutto nell'altro mondo. A titolo assolutamente personale, trovo questo approccio non solo astuto dal punto di vista intellettuale, ma anche positivo dal punto di vista morale. La fede prevede delle prescrizioni morali. Nel momento in cui è utile farne strame, si escogita un'invenzione pura e semplice. Si può sfogliare tutta la Scrittura, non si trova alcun accenno al purgatorio. Inventare il purgatorio permette di creare le prime banche italiane che permetteranno di realizzare l'impresa della conquista del mondo. Armare un vascello con pochissime possibilità di riaverlo, suppone la presenza di un capitale sufficiente per poter rischiare perdite consistenti. Questo implica la costituzione di società anonime con tutto ciò che comporta di indifferenza per le conseguenze sociali di certi sviluppi economici. L'islam, al contrario, è rimasto fedele ai suoi valori, non ha accettato il prestito ad interesse. Una banca islamica funziona con uno spirito totalmente diverso da quello di una banca occidentale. Potrebbe spiegare allo stesso tempo qual è il significato della limitazione del prestito ad interesse e qual è il concetto di banca islamica? Il concetto di banca islamica T.R. Con l'economia si tocca davvero il cuore della problematica dei limiti. A partire dalla seconda metà del Medio Evo si tenta di giustificare con invenzioni di natura teologica pratiche che la tradizione cristiana proibisce e che anche l'ebraismo proibisce quando le transazioni ad interesse si fanno tra ebrei. Lei ha citato l'esempio del purgatorio. Nella tradizione musulmana i sapienti non hanno cessato di ricordare che l'interesse e l'usura sono severamente proibiti e quindi certamente la speculazione. Il fondamento di questa prescrizione risiede nel fatto che nell'islam la ricchezza non può produrre da se stessa altra ricchezza e che la produzione dell'avere si deve ottenere col lavoro e l'investimento che preservi, in ogni caso, il fattore rischio. Questo è il vero senso della partecipazione economica. Non si può immaginare di avere una retribuzione usuraia a tasso fisso e predeterminato. Se si aggiunge a ciò l'obbligo di pagare la zakah sulla totalità dei beni suscettibili di produrre ricchezza, ebbene è chiaro che l'individuo deve impegnarsi ad investire nell'economia senza alcuna possibilità di vivere di sola rendita. In caso contrario, la sua ricchezza si esaurirebbe. Alcuni sapienti hanno tentato, nel corso della storia, di giocare sul significato dei concetti, le loro accezioni e la comprensione degli strumenti dell'analisi economica. Hanno affermato che l'interesse bancario non è un interesse o che è autorizzato purché non oltrepassi una certa somma o un certo tasso: arguzie di questo tipo. Ma queste affermazioni sono state molto criticate e non trovano una eco favorevole nella stragrande maggioranza dei musulmani. Lei ha citato le banche islamiche che tentano oggi di produrre nuovi modelli evitando l'interesse. Esistono iniziative interessanti, ma restano molti problemi in sospeso e molte carenze nella gestione di queste istituzioni. Più interessanti sono le iniziative di cooperative di sviluppo senza interesse, microprogetti di investimento come quelli che sono stati avviati in Bangladesh, o le società di investimento: tutte queste elaborazioni vanno nella direzione del rispetto della prescrizione islamica che si oppone alla speculazione ed all'interesse ed esige di pensare ad un commercio più equo ed una economia a misura d'uomo la cui finalità sia di servire e mai di asservire. J.N. Proprio alla base del capitalismo si trova la celebre analisi di Adam Smith nel XVIII secolo: non aspettatevi il pane quotidiano dalla buona volontà del panettiere, ma dal suo interesse; la somma degli interessi egoisti di ciascun individuo concorre in modo miracoloso al benessere comune. Questa analisi è estremamente riduttiva. E' vero che il panettiere è mosso dal suo interesse economico, ma ciò non vuol dire che non tenga alla stima del vicinato, che non ami il lavoro ben fatto, che non comprenda che il suo benessere particolare dipenda da una prosperità generale. Non c'è più lavoro per il panettiere in una società di disoccupati. Non c'è più sicurezza per il panettiere se i poveri ricorrono alla violenza per non morire di fame. Le motivazioni del panettiere sono molto più complesse dell'analisi apparentemente lucida e pragmatica di Adam Smith. L'efficacia terrificante del mondo occidentale si basa spesso su analisi semplicistiche, schematiche e riduttive. Porta anche a disfunzioni improvvise e devastanti: crisi economiche, guerre mondiali, disastri ecologici. A partire dal XVIII secolo, in Occidente si pensa esplicitamente che la religione costituirebbe un freno allo sviluppo economico. Il cristianesimo viene abbandonato a vantaggio della religione del profitto, dello sviluppo, della potenza, anche se le forme esterne vengono rispettate. La relazione tra cristianesimo e capitalismo è del resto molto più complessa di una semplice opposizione, una fagocitosi del primo da parte del secondo. La conquista dell'America è stata intrapresa all'inizio da persone che fuggivano dall'Europa, perché perseguitati per via della loro fede religiosa. Il puritanesimo dei Padri fondatori degli Stati Uniti genera uno spirito d'ascesa, di economia e d'austerità assolutamente straordinario. Per due secoli sono sopravvissute comunità di quaccheri ma del loro spirito originario non resta più granché oggi. Questo movimento religioso ha conquistato il pianeta, ma l'America ha dimenticato il suo passato puritano. Tutto lo sviluppo dell'Europa del Nord e del Centro si è appoggiato all'etica protestante così come è stata analizzata da Max Weber. Ma lo si vuole dimenticare oggi, in una società centrata sul soddisfacimento immediato degli appetiti più sommari. Oggi la religione non è più un fattore sociale importante in Occidente. Una delle linee di frattura tra l'Occidente e l'islam si trova in questa opposizione: gli uni considerano la religione come un fattore negativo, gli altri come un fattore positivo. Resta il fatto che, allo stato attuale delle cose, l'Occidente ha l'aria di avere più successo. Ma il prezzo è lo sfruttamento dei popoli che non partecipano a questo successo economico ed anche lo sfruttamento della natura. Si sa che non si potrà continuare indefinitamente questa crescita che costituisce una necessità politica ed economica.Un pò come la legge fondamentale del ciclismo: bisogna pedalare per mantenersi in equilibrio. Se ti fermi, cadi. Il rapporto di attrazione-repulsione tra Occidente e islam Di fronte a questo apparente successo, i musulmani sono tra due fuochi, per lo meno in certi paesi. Sono sedotti dall'Occidente e, allo stesso tempo, si rendono conto che soccombere a queste seduzioni significa rinunciare alla loro anima. Tra l'Occidente e l'islam si tesse una relazione di seduzione, di resistenza, di amore, di odio, che spiega forse certe reazioni violente. I terroristi algerini, i talibani afghani ne sono l'espressione estrema. Anche questi estremisti non fanno che reagire all'Occidente. Sono reazionari nel senso etimologico del termine. Se nutrissero una fede perfetta nell'islam, non arriverebbero alle violenze estreme che li screditano e compromettono l'islam. Farebbero un atto di fede proclamando la loro fiducia nella via islamica dello sviluppo economico. Un vero credente possiede la pazienza di attendere un secolo o due per verificare quale economia sopravviverà alla prova dei fatti. T.R. Sono assolutamente d'accordo con lei. Il problema è proprio in questo rapporto attrazione-repulsione. Per il Sud essere attratti dai miraggi tecnologici del Nord è quasi normale: c'è qualcosa che ha la stessa forza della magia e del fascino. Contemporaneamente, la stessa attrazione fa nascere una repulsione quasi epidermica e a volte violenta. Il sentimento generalmente condiviso è quello di una vera e propria espropriazione di sé, un'alienazione nel senso forte del termine. Si sente l'attrazione ma non si sopporta di essere anche costretti, "nonostante il cuore", a negare la propria identità con l'ondata che ci porta via. La violenza è allora un modo di divincolarsi da ciò che è vissuto come un incatenamento, un imprigionamento. La risposta è proprio nell'impegno a lungo termine. Quello di credenti determinati, resistenti, saggi e pazienti. Bisogna superare lo stadio della reazione epidermica e proporre reali progetti alternativi tanto sul piano economico e commerciale come su quello della gestione sociale ed umana. Tutto ci dimostra oggi che il modello occidentale non può essere un modello per il pianeta. Bisogna trovare qualcos'altro: credere, significa assumersi la responsabilità essenziale dell'iniziativa e della creatività. Lontano dai miraggi e dalla magia del progresso e di un modernismo cieco, bisogna che i musulmani ritrovino la fiducia ed il senso della missione che è la loro: in nome della loro fede portare testimonianza di una resistenza determinata contro la follia degli uomini, tanto nella gestione del mondo quanto nel modo di trattare i propri simili. J.N. Apprezzo molto che, nel suo libro, lei concluda dicendo: in fondo, ci si deve opporre ai rapporti di forza ed alla volontà disumanizzata dell'universo simbolico dell'Occidente: significa resistere non al suo essere ma al suo modo d'essere. Le due situazioni dell’islam Propongo di passare ad un tema legato al precedente. In questa coabitazione tra l'islam ed il mondo occidentale, che si può ancora vagamente chiamare cristiano, esistono, in somma, due situazioni. In primo luogo, la situazione dei paesi nei quali l'islam è maggioritario, nei quali esercita la sua tradizionale tolleranza nei confronti di cristiani od ebrei, tolleranza che, come abbiamo visto nelle precedenti conversazioni, a volte subisce un certo numero di sbavature. La situazione è relativamente chiara: in questa società islamica si può costruire un diritto, delle istituzioni, una economia che siano in armonia con i valori religiosi. Ma si sarà obbligati a mostrarsi estremamente diffidenti rispetto a qualsiasi invasione dei valori europei. A più riprese nel corso della storia recente, si è percepito questa specie di integralismo tremebondo del quale abbiamo già parlato e a proposito del quale la rivolta degli ayatollah in Iran è assai sintomatica. In secondo luogo c'è la situazione dell'islam minoritario, presente in Francia o in Germania con circa il 10% di musulmani sommersi da una società anticamente cristiana. La difficoltà parrebbe insormontabile. I musulmani sono certo obbligati a piegarsi a istituzioni, diritto ed economia radicalmente opposti ai loro valori. Parliamo dei due problemi. Come può l'islam, là dove è maggioritario, accettare certi valori o istituzioni occidentali senza rinnegarsi? Che cosa può accettare dagli occidentali che si insediano in questo contesto? Come può, in senso opposto, adattarsi all'interno di una società che gli è sornionamente ostile sotto l'apparenza della neutralità rispetto a tutte le religioni? Consideriamo prima l'islam maggioritario. A partire da ora, quale sarebbe il suo desiderio? Prima di tutto, c'è un paese islamico che si comporta secondo il suo cuore, da questo punto di vista? Esiste un paese che sia vicino all'ideale auspicabile d'adattamento senza rinnegarsi? Esiste un paese islamico che pratica correttamente il rapporto auspicabile con le altre fedi religiose? T.R. Lo sa, sono molto critico rispetto ai paesi musulmani, ma mi rifiuto di esagerare. Abbiamo già parlato di paesi che sono, a mio avviso, piuttosto antimodelli. L'Arabia Saudita, lo ripeto, è un bastione protetto dall'Occidente: per i musulmani è tutto salvo un modello di gestione politica. L'Afghanistan è la stessa cosa, malgrado ciò che si vuol far credere qui: nel silenzio e nei retroscena della gestione politica presentata dai talibani, gli Stati Uniti preparano un accesso alle risorse petrolifere dell'Asia centrale con l'appoggio del Pakistan e dell'Arabia Saudita. La denuncia è diretta anche verso altri tipi di paesi come la Tunisia, l'Algeria, la Turchia, la Siria, l'Egitto e tanti altri che sono chiaramente dittature. Sono ugualmente vigile e critico riguardo all'Iran, la Malesia o il Sudan ma mai nel modo semplicistico e falso attraverso il quale ci vengono presentati questi paesi dai media occidentali; le esagerazioni e la propaganda sono costanti e stabiliscono una griglia di lettura ideologica e menzognera. Non ho un modello da proporre, ma oggi ho delle domande da fare all'Occidente. Perché alla fine bisogna essere chiari e ammettere che di due cose una sia: o riconoscere il diritto alle società a maggioranza islamica di restare fedeli alle loro origini e di pensare ad una organizzazione confacente alla loro identità; o si dice, si dichiara, che l'unica motivazione del Nord consiste nel preservare i propri interessi a qualsiasi costo, anche se si dovesse a tal fine negare la fede dell'altro e la sua cultura. La storia ci dice che non si può pensare al futuro del mondo musulmano senza riconoscere la pregnanza del riferimento religioso e culturale. Il caso della Turchia parla chiaro: dopo oltre sessant'anni di un sistema all'europea imposto a randellate ed esecuzioni, il riferimento islamico resta solidamente ancorato. Domani gli oppositori al regime potranno diventare tanto più violenti quanto più si continuerà a negare il "fatto islamico" ed a gestirlo con la repressione e la morte. Non sottovalutare i regimi politici I paesi del Nord, se vogliono preparare l'avvenire, devono operare un radicale cambiamento di gestione cessando di ricercare solo l'interesse a breve termine. Le mie domande sono le seguenti: si è pronti in Occidente a moderare la propria volontà di dominio; si è pronti a fare quello che si dice in materia di diritti dell'uomo; si è pronti a non sostenere più i dittatori e a non nascondersi dietro i più ipocriti discorsi di giustizia ed uguaglianza? Nessuno si lascia ingannare: chi dunque è pronto a ciò in Occidente? Io sono critico contro i paesi musulmani ma l'ipocrisia dei paesi occidentali ha finito col nausearmi, nel vero senso della parola. Si vorrebbe che io volgessi lo sguardo verso il mondo musulmano e che denunciassi gli orrori fatti in nome dell'islam, mentre alle mie spalle, nei retroscena, i poteri che danno lezione negoziano e collaborano con i peggiori autocrati, i più oscuri criminali. Ma è ancora peggio, sa. Lei è letteralmente "messo in un sandwich". Io continuo a criticare i poteri, dall'Arabia Saudita alla Tunisia, passando per la Libia, la Siria e tanti altri. L'ha sentito molte volte dall'inizio dei nostri colloqui. Come uomo di fede e di buona volontà, lei trova questa posizione giusta ed onesta. Ma lo sa qual è il nocciolo della faccenda? E' che questi discorsi non si vogliono più sentire in Occidente. Quando critico le monarchie del petrolio o l'Algeria o l'Egitto, alcuni mi battono sulla spalla e mi incoraggiano, mentre i poteri francese, inglese, belga fino ad arrivare alle autorità svizzere e dei cantoni vedono molto male la cosa. Queste denunce li disturbano ed i poteri che io critico intervengono affinché si trovi un mezzo per farmi tacere. Che cosa può valere la mia parola di fronte ai milioni di dollari di trattazioni finanziarie che esistono tra questi diversi paesi? Non molto... Niente. Peggio, si orchestrerà la diceria per fare di colui che alza la voce un integralista mascherato, un fondamentalista dal linguaggio doppio e si getterà quindi discredito sulla persona stessa. Lo vivo tutti i giorni... Tante e tante pseudo-rivelazioni e voci diffuse da intellettuali molto perspicaci, difensori della "buona ideologia", o ancora "giornalisti liberi", informati nelle anticamere dei servizi segreti di stato, i quali sono necessariamente "disinteressati" e li forniscono di "rivelazioni" piccanti "per puro amore della verità". Certo. Chi è allora oggi che parla in modo doppio? Colui che denuncia l'orrore e si batte per la giustizia, lo Stato di diritto, le elezioni libere ed il pluralismo o gli stati che, in nome dei loro interessi economici, si appoggiano qui sulla democrazia e collaborano, là, col terrore? Non si tratta oggi di imporre un modello unico di gestione politica, economica e sociale. Si tratta piuttosto di difendere principi inalienabili. Ne citerei tre sui quali, penso, possiamo essere d'accordo: lo stato di diritto, il diritto dei popoli di scegliere i loro eletti ed i loro rappresentanti, il principio del pluralismo e della libertà di coscienza. Penso che sia giusto interpellare i musulmani su questi principi e penso che la loro risposta debba esser chiara: noi ci riconosciamo in questi fondamenti. L'islam non è responsabile della destrutturazione delle società contemporanee; bisogna smetterla con questa analisi semplicistica e considerare l'insieme dei fattori che giocano sul piano storico, politico, sociale ed economico. Tuttavia, bisogna riconoscere che esistono oggi nel mondo musulmano movimenti di opposizione legalitari che rifiutano la violenza e che, volendo restar fedeli all'islam, si oppongono ai dittatori e vogliono instaurare uno stato di diritto tramite vere elezioni. Essi sono demonizzati in Occidente perché a tutti i costi si vuol fare di ogni erba un fascio:"Tutti integralisti, tutti radicali". I poteri occidentali hanno capito che i loro interessi sono più protetti dalle dittature che dai movimenti popolari, a fortiori musulmani, fossero pure democratici. Nient'altro li interessa. Da quando ci si è resi conto di ciò, si comprende come i discorsi politici dipendano prima dalla copertura ideologica che da una constatazione oggettiva. Quando si osserva il mondo musulmano oggi, c'è di che preoccuparsi, questo va da sé. Ma le cose avanzano un pochino; lei ha parlato abbondantemente della situazione iraniana e ho detto chiaramente che bisogna essere critici su parti intere della gestione religiosa, sociale e politica. Ma bisogna essere oggettivi ed onesti: in materia di libertà politica come sul piano della partecipazione femminile, questo paese è nettamente in vantaggio rispetto all'Egitto, la Tunisia o l'Arabia Saudita, che sono gli alleati immediati dell'Occidente. Da dieci anni l'avanzata è visibile e fenomenale. E' in corso una rivoluzione all'interno stesso del processo rivoluzionario. Non è certo sufficiente, ma dobbiamo avere l'onestà di riconoscere che l'Iran è molto più uno stato di diritto e di partecipazione dei cittadini che la maggior parte degli altri paesi musulmani. Ed il movimento femminile non ha paragoni. J.N. Se ho ben capito il suo intervento, lei non cita come esempio nessun paese, perché non c'è nessun paese che si possa considerare esemplare, perché nessun sistema politico è esemplare. Lei pare privilegiare l'Iran come il meno peggio approssimativo di quello che si può desiderare per un paese in cui l'islam è maggioritario. T.R. No, io non ne parlo qui in quanto "modello". Voglio semplicemente sottolineare che il riferimento all'islam non significa immobilismo, dogmatismo, chiusura. Al contrario, l'Iran è di tutti i paesi della regione quello che ha vissuto, a diversi livelli, l'evoluzione più spettacolare e che non è assolutamente il paese musulmano meno democratico. Significa che, anche all'interno del campo di riferimento islamico, le cose si muovono e si evolvono. Oggi sono i paesi che impongono un modello di società, apparentemente all'europea, quelli nei quali le cose sono statiche e dove le iniziative sociali, politiche ed economiche sono immancabilmente soffocate sotto la cappa di piombo dei poteri. Contrariamente a quello che si dice, i paesi che si riferiscono all'islam, con tutti i difetti che obiettivamente dobbiamo rilevare, non sono i meno dinamici né i meno portatori di progresso. Bisogna ancora mettersi d'accordo su che cosa si intende per "progresso". E' il grado di penetrazione dei modi di vivere occidentali oppure l'impulsione di una dinamica popolare e statale che comporta cambiamenti sociali, politici, legislativi ed economici? Abbiamo parlato dell'Iran, ma parliamo della Malesia o delle mobilitazioni in Indonesia. Anche il Sudan, che deve essere criticato quanto alla gestione politica (rifiutando comunque le analisi "a spizzichi" nelle quali si ripete ciecamente la propaganda dell'opposizione ideologica degli Stati Uniti... ) anche questo paese povero è riuscito a mettere in piedi un progetto di agricoltura ad uso alimentare a livello locale, appoggiata ad istituti universitari regionali, che ha permesso una crescita di circa il 13%, mantenuta fino all'inizio dell'embargo. Il F.M.I., nei suoi primi rapporti, aveva elogiato il risultato, che fu subito curiosamente ignorato da quando è stato chiaro che il regime non collaborava con gli Stati Uniti. Tutto ciò mi porta a dire che il riferimento all'islam non è un freno in sé; al contrario, può diventare uno strumento fecondo di mobilitazione popolare e sociale purché siano conservati la libertà ed il diritto. Ancora una volta, il problema dei paesi musulmani, di quelli che ho citato e di tutti gli altri, non è l'islam, ma l'assenza del rispetto dei principi dello stato di diritto e del pluralismo politico. J.N. E ci sarebbe un altro paese più vicino ancora a questo ideale di paese musulmano, a maggioranza islamica, che allo stesso tempo sia in grado di vivere col resto del mondo in modo corretto? Lei vede un altro paese? T.R. Ho citato la Malesia, che ho appena visitato e devo dire che ho ridimensionato la mia analisi. Certo, esistono iniziative sociali ed economiche molto interessanti: il paese si muove, lo sviluppo è impressionante. Ciò che turba, è il modello di sviluppo che è stato proposto: è chiaramente una "società di consumi", fortemente americanizzata e "insaporita" da qualche reminiscenza islamica... E' sconcertante e credo che non sia questa la via. Penso invece che si dovrebbe proporre un progetto in rottura con il modello occidentale fondato sulla produttività ed il consumo. La dinamica trasnazionale dell’islam Ragion per cui non parlerei di stati o paesi particolari da considerare come esempio. Ciò che mi interessa oggi è piuttosto quello che chiamerei la "dinamica transnazionale": in molti paesi musulmani, la mobilitazione popolare e l'impegno a livello detto "meso" è impressionante. Sono state avviate iniziative di cooperazione di sviluppo davvero originali, come la creazione di piccole e medie imprese o anche progetti agricoli che mostrano il vigore e l'impegno degli intellettuali e di intere parti di popolazione musulmana. Sono stato recentemente nell'Africa occidentale e ho potuto rendermi conto che il tessuto associativo è molto impegnato nelle città e nelle campagne. A livello locale vengono realizzati progetti endogeni, sociali, educativi ed economici. Si può notare la stessa dinamica in altri paesi e questo malgrado la repressione, come in Egitto, in Siria o in Indonesia. Questo fenomeno di mobilitazione transnazionale non è solo interessante ma di capitale importanza perché si allontana dal modello del consumismo imposto dall'Occidente e si basa su una strategia di rottura in nome dei valori dell'identità musulmana. Bisogna anche sottolineare il suo aspetto popolare che lascia presagire un rinnovamento dell'impegno del cittadino. Oggi bisogna mettere in evidenza queste dinamiche: a mio parere, rappresentano i "modelli" lontani dal falso barcamenarsi degli stati. E' a questo movimento di iniziativa e di resistenza che mi associo: lo troviamo allo stesso tempo in diversi paesi e a me pare che sia a questo livello che è necessario impegnarsi oggi. L'avvenire è senza dubbio questa dinamica popolare di partecipazione a livello di educazione e solidarietà che trascina nella sua scia una profonda rivoluzione delle mentalità. Il riferimento islamico è qui allo stesso tempo determinante e dinamico, creativo, fattore di coinvolgimento. Si trovano anche importanti movimenti di donne che rivendicano i loro diritti e che sono molto attive nel tessuto associativo. Sono loro che si occupano di progetti agricoli collettivi con rendimenti anche tre volte superiori a quelli degli uomini (come hanno dimostrato alcuni studi nel sud del Senegal). Sono spesso musulmane praticanti ed impegnate e non esitano a mettere sottosopra le abitudini falsamente rivestite della legittimità dell'islam. Ci sono là cose molto interessanti: si tratta di progetti locali di economia alternativa che si collocano in opposizione all'economia liberale opprimente. Inoltre, sul piano politico, ci sono strutture di concertazione e partecipazione, a mio parere, modelli di cittadinanza sul piano locale. J.N. Esattamente. Invece di continuare questo gioco in cui io le pongo domande sulle sue preferenze, lei potrebbe interromperlo facendomi la stessa domanda. Avrebbe potuto chiedermi se io credo esista una scala tra i paesi che si dicono cristiani o che sono di tradizione cristiana. C'è qualcuno più vicino all'ideale cristiano? Non avrei esitato a lungo: sono i paesi europei neutrali, i paesi scandinavi, la Svizzera, i Paesi Bassi, in opposizione a paesi che hanno utilizzato il cristianesimo a fini politici, come la Spagna di Franco, il Portogallo di Salazar, l'Italia di Mussolini, la Francia di Petain, la Grecia dei colonnelli, l'Argentina di Ongania, il Cile di Pinochet. Per me esistono paesi di tradizione cristiana più vicini alla fede nelle loro realizzazioni politiche che altri. Ed è anche molto chiaro quando rifletterà sugli esempi che le do. Esistono regimi che procedono lentamente e penosamente verso ciò che si chiama il Regno di Dio sulla terra. e ce ne sono altri che se ne allontanano radicalmente. In generale meno si invoca il cristianesimo come legittimazione politica, più lo si pratica nei fatti. Questa è forse una valutazione globale che si potrebbe fare per classificare i paesi cristiani in merito alla loro eccellenza. L'islam in stato di guerra potenziale? Di fronte all'islam ed ai suoi diversi radicamenti politici, ho sempre molto timore malgrado le sue risposte. Da una parte un ideale di pace, di fratellanza, di tolleranza nel Corano; dall'altra situazioni patologiche che si sviluppano in tutte le direzioni. La violenza ed il terrore nel caso dell'Algeria, dell'Afghanistan o del Sudan. In Libia. anche se non c'è violenza, questo paese sembra esser governato da un pazzo. I paesi che si avvicinano all'Occidente come la Tunisia o la Turchia sono, secondo lei, lontani dall'esser modelli dal punto di vista politico. Si ha la sensazione che l'islam sia in uno stato di guerra larvata. Prima si tratta spesso di guerra civile, all'interno di un paese. Poi di guerra tra paesi musulmani, come tra l'Irak e l'Iran. Il mondo islamico dà l'impressione di essere un nido di vespe, pronte a massacrarsi reciprocamente o a diffondere il loro veleno all'esterno. Quando ci sono difficoltà all'interno dell'Algeria, e la Francia, assai imprudentemente del resto, dà lezioni di morale all'Algeria, i terroristi algerini pensano di disporre di una sorta di diritto morale per mettere bombe sugli Champs-Elysèe. Sono peripezie adatte a creare malintesi permanenti. L'insieme dell'islam è considerato dal mondo occidentale come un fattore di squilibrio mondiale, forse per ragioni di squilibrio interno. T.R. Per trattare questi argomenti bisogna imporsi dei livelli di lettura. Ci sono effettivamente, nel mondo musulmano di oggi, situazioni conflittuali e problemi irrisolti. Innanzitutto non bisogna mai dimenticare che la maggior parte dei paesi musulmani vive in una situazione di sottosviluppo caratterizzato. La povertà, la miseria e la realtà del soffocamento della sfera politica sono di per sé atti a creare turbolenze. Questo è un primo livello. Il secondo riguarda l'intervento immediato o mediato dei poteri occidentali con lo scopo di difendere i loro interessi. Bisogna allora entrare in una analisi geopolitica che sia tutto fuorché semplificatrice. Prendiamo molto rapidamente tre esempi. Il caso algerino non è mai stato risolto perché, nel fondo, la relazione storica tra la Francia e l'Algeria non cessa di segnare le memorie. C'è stato un processo elettorale relativamente pluralista che è stato fermato da un autentico colpo di stato mascherato. Il giorno dopo le elezioni, deputati eletti si sono visti imprigionati, deportati e torturati davanti agli occhi di tutto il mondo. I governi sulla scena internazionale non hanno reagito, ed è forse l'Arabia Saudita che ha riconosciuto per prima il nuovo potere sanguinario. Gli arresti e le torture sono stati la regola ed il governo francese, ad esempio, ha sostenuto il nuovo potere il quale, si sa, non ha neppure tentato di nascondere il suo carattere repressivo. Che si sia d'accordo o no a riguardo del FIS, ed io personalmente ho iniziato ben presto un dialogo critico con alcuni dei suoi partigiani in Europa, non si può tacere davanti ad una manifestazione di ingiustizia e diniego del diritto. Bisogna essere chiari: denunciare con fermezza ed energia i gruppuscoli armati è fuori discussione, ma con la stessa forza bisogna criticare la gestione statale di una mafia militare che si basa sul terrore e l'omicidio. Ora che cosa si osserva? I poteri occidentali si mostrano molto freddi quando si tratta di denunciare il potere politico algerino. La Francia, per prima, continua ad avere relazioni con certi militari indegni e che hanno al loro attivo numerosi crimini contro l'umanità. Chi è dunque responsabile delle turbolenze nel mondo musulmano? I soli musulmani? No, cerchiamo di essere seri e determiniamo la vera posta in gioco. Come mai gli impianti delle risorse petrolifere non sono mai stati toccati da sei anni a questa parte? Come mai il F.M.I. sottolinea, mentre i massacri di civili continuano, che "l'Algeria è un buon allievo" e gestisce, in modo competente e determinato, il programma di riforma strutturale? Stupefacente, per lo meno, l'oleodotto che attraversa l'Africa del Nord ed in particolare l'Algeria, costruito mentre qualche chilometro più in là si spargevano il sangue e la morte. Amnesty International e la Federazione delle Leghe dei diritti dell'uomo dubitano delle vere intenzioni e delle azioni del potere ma si continua a far finta di essere ciechi in Occidente. E' troppo facile denunciare subito l'islam ed i musulmani senza tener conto del ruolo e della responsabilità dell'Occidente nella gestione e nel mantenimento dell'orrore. Che dire dei talibani, sostenuti dai servizi segreti pakistani che sono essi stessi al soldo degli Americani? Anche qui un oleodotto attraversa il paese fino all'Asia centrale. Chi dunque sostiene questo islam reazionario e chiuso? Chi sostiene l'Arabia Saudita e la gestione indegna che i principi fanno delle loro ricchezze? Chi sostiene i partigiani dell'islam più riduttivo? La risposta è semplice: fintanto che preservano i loro interessi finanziari e geostrategici, i poteri occidentali se ne infischiano del progresso, dell'apertura di spirito, della democrazia e dei diritti dei popoli. Non si può essere protagonisti e promotori di dibattiti e fingere di essere spettatori rattristati e spaventati al momento della loro valutazione. Non si tratta qui di deresponsabilizzare i musulmani, ma bisogna riconoscere almeno che le responsabilità sono condivise. La violenza visibile della quale lei parla non deve farci dimenticare la vera violenza che oggi la gestione del pianeta esercita sui paesi sfavoriti. La realtà della violenza non si valuta secondo l'impiego o la pura visibilità delle armi... ma piuttosto deve essere considerata alla luce della sofferenza e della morte che vengono diffuse. Chi oggi esercita maggior violenza sulla terra? Attenzione alle illusioni ottiche: le immagini di orrore della televisione sono insopportabili ed è tempo di porre fine a questi eccessi; ma le conseguenze dei flussi finanziari invisibili, quasi virtuali, e delle gestioni politiche nascoste quanto sono più drammatiche! La cultura dell'immagine sta uccidendo la profondità delle nostre analisi. È gravissimo. Una parola ancora sul Sudan, paese al quale lei fa spesso allusione. Tutto avviene oggi come se si sapesse che cosa sta veramente succedendo. Ma chi sa che cosa sta succedendo? La propaganda americana dà il tono e si dice tutto e qualsiasi cosa su questo paese. E' gravissimo: alla fine, è il permesso dato agli aerei americani di distruggere uno stabilimento farmaceutico, davanti agli occhi di tutto il mondo, per poi permettersi di rifiutare la costituzione di una commissione d'inchiesta destinata a sapere se vi si nascondevano o no prodotti chimici destinati ad essere usati come armi. Mi sono recato nel Sudan ed ho fatto delle critiche sulla mancanza di libertà politica ma questo non mi permette di dire qualsiasi cosa. La situazione nel sud del Sudan non è responsabilità del regime attuale: tutti dovrebbero sapere che è la Gran Bretagna con la sua gestione coloniale che ha deciso per uno sviluppo differenziato tra Nord e Sud. Quando si aggiunge che si tratta di una guerra di religione, si dice un'altra falsità: esiste un'alleanza obiettiva tra gli Stati Uniti ed alcuni movimenti cristiani (che comunque raramente sono chiari sui loro programmi missionari di evangelizzazione) per denunciare il potere sudanese "islamista". Che dire infine, se si tratta di una guerra di religione, del sostegno saudita ai partigiani del "cristianissimo" Garang? Chi è che vogliamo prendere in giro? Gli interessi in ballo sono importanti e il Sudan è in una posizione strategica in Africa. Per fare un equo paragone, il potere di Khartum è meno poliziesco, meno duro e meno discriminatorio dei suoi vicini, l'Egitto, la Tunisia o la Siria. E' la sua insubordinazione che costituisce un problema e che giustifica l'embargo attuale. Bisogna andare a vedere quello che succede veramente sul terreno e smetterla di ripetere analisi semplicistiche e ideologicamente orientate. Detto questo, sia ben inteso, non si tratta mai di difendere gli eccessi del potere militare di Khartoum, sia sul piano politico e/o penale: il clientelismo è molto diffuso, la libertà politica relativa e i poveri e gli sradicati vengono colpiti in modo inaccettabile. La mia critica è chiara. La questione del numero dei prigionieri politici, posta da fonti ufficiali al momento della mia visita, affinché la loro gestione politica fosse giustificata ai miei occhi, non mi interessa: anche se ci fosse una sola donna o un solo uomo in prigione per le sue idee e, soprattutto, fosse torturato, questo sarebbe già inammissibile. Questo è il caso del Sudan: l'orrore e la disumanità non si valutano alla luce del numero. Mi permetta di fare ancora una domanda: chi dunque vuole oggi la costituzione di società musulmane pluraliste, aperte, libere? Chi si batte per lo stato di diritto? Non si possono sostenere carnefici e rimproverare ai popoli di resistere; non si può restar ciechi davanti agli omicidi di intellettuali esercitati dai poteri e dispiacersi per l'assenza di intellettuali liberi. Credo che si debbano denunciare tutti i terrorismi, quelli dei gruppi armati e quelli dello Stato, promuovere l'educazione e la libertà e battersi affinché venga rispettata l'opinione dei popoli anche se questi decidono contro gli interessi immediati dell'Occidente. Ciò significa anche, ad esempio, prendere posizioni chiare rispetto ad Israele ed alla sua politica: questo stato e l'ideologia sionista sono fattori di disturbo nel Medio Oriente ed il governo agisce come gli pare con i suoi vicini, se ne infischia dei Palestinesi (e del mondo) e legalizza la tortura "di bassa intensità". Non c'è niente da dire su questa realtà, non c'è niente da spiegare? Dobbiamo promuovere insieme una pedagogia della sfumatura e della resistenza. Si potrebbe pensare che io non riconosca alcuna responsabilità ai musulmani. Non è così: continuo a sottolineare le carenze del nostro pensiero, della nostra gestione e del nostro impegno. E' una costante nelle mie opere, nelle mie conferenze e nei miei articoli. Come ho già detto, secondo me urge rendersi conto che le responsabilità sono condivise. Ognuno è responsabile della sua riuscita o della sua sconfitta J.N. Io comunque sono pronto a riconoscere le colpe dell'Occidente. A cominciare dalla vasta opera di colonizzazione della quale abbiamo appena parlato, che è evidentemente traumatizzante per la cultura vittima della colonizzazione. Ma essa è nata nel passato a causa della debolezza dei paesi islamici, della loro incapacità di concatenare la rivoluzione scientifica e quella industriale. Resta questa sfida. La storia salva solo le civiltà che hanno successo, in un modo o nell'altro, nella cultura, nella scienza, nella politica o nella religione. Se consideriamo i piccoli paesi neutrali che ho menzionato e che si trovano nel cuore dell'Europa, la loro indipendenza e la loro prosperità non sono piovute dal cielo. Al contrario, hanno spesso dovuto battersi. Gli Svizzeri hanno creato un paese contro tutti i poteri che li circondavano e restando pronti, ancora in questo secolo, a battersi per preservare la loro neutralità e la loro indipendenza. Stessa sfida per un paese come l'Olanda, paese pianeggiante, difficile da difendere, che ha rischiato nel XVII secolo di scomparire sotto la pressione degli Spagnoli, ansiosi di imporre nuovamente il cattolicesimo ai protestanti. Si può ricordare la stessa epopea per la Danimarca o la Svezia, che nel corso della loro storia, hanno dovuto difendersi armi alla mano. A volte con azioni di resistenza passiva ammirevole, come i danesi, che hanno salvato fino all'ultimo tutti gli ebrei che vivevano sul loro territorio durante la Seconda Guerra mondiale. Questi popoli prosperano, hanno dovuto combattere contro aggressioni esterne, sono riusciti a creare una democrazia pluralista estremamente rispettosa dei diritti dell'individuo. Tra lo sviluppo politico del cristianesimo e quello dell'islam sembra delinearsi per lo meno uno scarto nel tempo. Lo scontro, oggi, non è forse dovuto a questo scarto nel tempo? Questa frattura tra l'XI ed il XV secolo in cui l'Occidente si è appropriato della ragione (o insensatezza) non ha costituito il divario temporale tra le due religioni? Riflettiamo sull'etica protestante, fondata su una serie di malintesi religiosi sempre più fruttiferi in termini di sviluppo economico. Secondo la tesi di Calvino, gli uomini sono predestinati fin dalla nascita o alla salvezza o alla dannazione, qualsiasi cosa essi facciano. Questo non ha assolutamente niente a che vedere col messaggio di Gesù. E' un'idea giusta ("Dio è l'unica fonte di salvezza") divenuta folle ("l'uomo non ha alcuna influenza sul proprio destino"). Un'idea assurda. Ma, curiosamente, questa perversione religiosa ha determinato il benessere dei popoli che vi hanno aderito. Perché? Perché erano angosciati. Perché consultavano i pastori sulle loro possibilità di essere salvati. La risposta dei pastori è stata di tipo egoterapeutico: lavorate senza sosta per dimenticare le vostre angosce! Questo tipo di consigli virtuosi lascia sottintendere in modo surrettizio che coloro che lavorano molto hanno molto successo e in un certo senso, questo successo materiale costituisce, se non una garanzia, almeno un indice della loro salvezza. Soprattutto se praticano l'ascesi che consiste nel privarsi del piacere di consumare nell'immediato per accumulare un capitale di risparmio. Era un modo per indovinare se si fossero salvati. Dal punto di vista religioso, è assurdo: Gesù non ha mai suggerito di lavorare con accanimento, al contrario, e non ha mai lasciato credere che il successo materiale o il gusto del risparmio potessero essere legati alla salvezza eterna, al contrario. L'invenzione dell'etica protestante del lavoro e della capitalizzazione costituisce un'operazione simile a quella dell'invenzione del purgatorio. E' contraria al genio del cristianesimo, ma funziona. Funziona un pò come un vaccino per cui l'organismo reagisce ad un'aggressione moderata secernendo anticorpi che lo rendono infinitamente più resistente. Non solo questo funziona dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista politico. Se si dovesse scegliere tra la Svizzera e l'Afghanistan, la scelta è presto fatta. La differenza tra i paesi non è un problema geopolitico, è un problema di cultura. Se in un Gedankenexperiment si prendessero gli afghani e li si mettessero in Svizzera e si prendessero gli svizzeri per trasportarli in Afghanistan, dopo vent'anni l'Afghanistan sarebbe diventato la Svizzera e la Svizzera sarebbe diventata l'Afghanistan. Ci sarebbero talibani e donne col velo a Ginevra e banche a Kabul. E' chiaro. Dunque, in questa dinamica torturata del cristianesimo ereditata dai greci si trova forse la spiegazione. Questa dinamica è assente nell'islam perché esso non è in stato di ribellione. Non è in rivolta contro Dio. Non è in rivolta contro la natura. Come comprendere il divario storico tra le due civiltà a partire da questo? T.R. Non sono assolutamente d'accordo col suo punto di vista. Ho sentito spesso questo tipo di deviazione nell'analisi e mi sembra pericoloso. Certo si deve riconoscere che esiste un ritardo in termini di sviluppo nei paesi musulmani, ma non penso che si possa spiegare questo fenomeno con l'idea di un "ritardo culturale" o di una sorta di "sottosviluppo culturale". Le formule del tipo "Noi ci siamo già passati", "Bisogna che l'islam viva il suo rinascimento come l'abbiamo vissuto noi", "L'islam sta vivendo il suo Medio Evo" sono estremamente semplificatrici e soprattutto rivelano una doppia posizione: prima si considera la storia occidentale come l'unico parametro del buon sviluppo (il che è, in sé, molto discutibile) e poi si lascia perdere la logica interna e l'evoluzione endogena delle altre civiltà, il che è spesso prova di una totale ignoranza delle dinamiche fondatrici e strutturanti della fede e della cultura dell'altro. Non si può passare così dalla constatazione oggettiva del ritardo economico alla deduzione del ritardo culturale. Quello che spiega il sottosviluppo oggi è una somma di fattori che ingloba tanto i fenomeni interni di declino delle società islamiche di cui abbiamo già parlato, quanto la confisca coloniale che sottometterà i popoli per decenni sul piano politico come, oggi, su quello economico. Esistono fattori oggettivi che spiegano il capovolgimento del rapporto di forza a partire dalla fine del Medio Evo e la lenta e radicale presa di potere della civiltà occidentale dovuta essenzialmente al suo nuovo dominio scientifico e tecnologico. E' evidente che l'apparato concettuale teologico, che è stato pensato e categorizzato a posteriori, ha permesso di legittimare l'impresa a tutti i livelli, sociale, politico, economico e scientifico, ma questa non è l'unica fonte di spiegazione del Rinascimento. Bisogna dire che il progresso e la liberazione della ragione sono state operate in Occidente soprattutto contro la religione ed il dogma. A partire dal XV e XVI secolo lo si sente già in Montaigne e Rabelais ad esempio, il discorso religioso è in ritardo rispetto al pensiero autonomo che ben presto diventerà chiaramente scientifico. Ciò che si percepisce a livello del pensiero si concretizza nelle diverse sfere dell'attività umana. Il discorso teologico ha dovuto adattarsi ad una evoluzione alla quale prima non era abituato: il suo potere fino a quel momento si basava sul fatto di promulgare il dogma e fissare la norma. La ribellione del pensiero, da una parte, e la resistenza e l'incapacità di adattarsi da parte del clero dall'altra, spiegano, all'interno del campo di riferimento occidentale, come si è stabilito il progresso. Non bisogna più dimenticare le influenze esterne come quella del pensiero arabo-musulmano. E' una questione di rapporto di forza tra tendenze contraddittorie. Non credo che il substrato teologico del protestantesimo e del cattolicesimo sia sufficiente per spiegare il fenomeno dello sviluppo, anche se, e lei ha ragione, ha potuto legittimare ed incoraggiare l'iniziativa privata, come è stato il caso dell'etica protestante. La civiltà islamica non ha conosciuto questi sviluppi. Aggiungerei anzi che la sua evoluzione è avvenuta all'opposto di quello che abbiamo appena detto. Durante i primi secoli, quando il riferimento religioso è ancora molto pregnante, si può constatare un pensiero molto dinamico, innovatore in materia di produzione intellettuale, di prestiti ed adattamenti culturali o ancora di sviluppi scientifici. E' per analogia con la storia occidentale che si pensa che il fattore religioso "per forza" frena la scienza e la ricerca. Ma non è così nella storia musulmana, al contrario... "Sapere è adorare; capire meglio è adorare meglio l'Altissimo"; i musulmani fin dall'inizio hanno inteso così il messaggio dell'islam. Bisogna aggiungere che la rivolta, che fu un vero e proprio catalizzatore dello sviluppo nella storia della mentalità occidentale, non è l'unica condizione che permette il superamento di sé. La nozione centrale di jihad nell'islam, alla base di tutte le elaborazioni dell'azione, associa la fede al principio dello sforzo e dell'impegno. Mai nell'islam l'espressione dell'atto di fede ha implicato l'accettazione passiva della condizione di povertà o di sfruttamento. Se si può comprendere il senso di una ribellione, anche della sua necessità, in una religione che insegna che gli ultimi qui saranno i primi nell'altra vita (è in questo senso che Marx aveva ragione di parlare di "oppio dei popoli", dato che il cristianesimo fino alla sua epoca aveva conservato il discorso dell'accettazione e della rinuncia), non bisogna commettere l'errore di ridurre i discorsi delle altre religioni agli stessi presupposti. E' un grave errore metodologico e scientifico. Si dice nella Bibbia che sarà più difficile per un ricco entrare in paradiso che per un cammello passare nella cruna di un ago. Nel Corano viene impiegata la stessa formula, ma qui non si tratta di un ricco, bensì di un essere umano orgoglioso ed ingiusto, perché non è sufficiente essere poveri per essere onesti... Il culto della povertà, della rinuncia e della contemplazione non è islamico: al contrario, si tratta di un messaggio di azione, di testimonianza nell'azione. In un certo numero di paesi il riferimento islamico è stato molto più un fattore di mobilitazione che qualsiasi altro appello alla resistenza. All'epoca coloniale, sul piano politico come oggi sul piano economico e sociale, il riferimento religioso è un moltiplicatore di energie e sinergie. E' una realtà nel mondo musulmano come in Occidente ed i musulmani sembrano ritrovare, per via della congiunzione di tutti gli scogli dei quali abbiamo parlato, il soffio dei tempi antichi. E' ancora insufficiente ma il rinnovamento è visibile. In molte società a maggioranza musulmana, l'islam forma delle coscienze che orientano mobilitazioni in termini di progetti di società. E' una constatazione che qualsiasi osservatore anche poco obiettivo non sarebbe in grado di tralasciare. Il pensiero riformista musulmano ne è la prova nell'epoca contemporanea. Le debolezze storiche dei musulmani J.N. Lei accenna nella sua opera ad un certo numero di scogli da superare all'interno del mondo musulmano. Li citerò rapidamente: la settorialità delle competenze, l'assenza di cultura politica, l'assenza di volontà politica, la corruzione. Ho riflettuto molto su questo punto. Forse ho qualche altro suggerimento. Proverei a trovarli non nelle manifestazioni di immaturità politica, di arcaismo culturale come lei dice, ma nell'origine comune di queste manifestazioni. Se mi si chiedesse, con tutto il rispetto e la simpatia che ho per lui, di determinare il punto debole dell'islam, allo stesso modo in cui ho designato il punto debole del cristianesimo, mi porrei innanzi tutto la questione dello statuto del Corano. Non c'è un'esagerazione nel riferimento letterale a un libro, a un testo scritto in una determinata epoca? Non c'è un attaccamento esagerato al sacro per opposizione al santo? La santità è in verità una proprietà dell'uomo. L'uomo o è santo o non lo è: questo risale ad un certo atteggiamento nell'esistenza. Il sacro è più ambiguo: una categoria intermediaria tra la magia e il santo, l'irruzione nel mondo visibile di qualche cosa di radicalmente altro. La debolezza dell'islam non è nella definizione di una morale molto esigente, certo, ma anche molto codificata, molto fissa nelle prescrizioni e molto meno fondata sulla coscienza che in Occidente. Nel cristianesimo, almeno nella pratica che ho appreso in seno al cattolicesimo, c'è un esercizio mentale e spirituale che si chiama esame di coscienza. E l'esame di coscienza ripetuto, che alla fine ha generato la psicanalisi, è uno strumento allo stesso tempo molto pericoloso da manipolare ma anche straordinariamente utile. Il cristiano di fronte alla sua coscienza deve continuamente superarsi e mai limitarsi solo alle prescrizioni. So che nell'islam c'è anche questo. Ma è percepito nello stesso modo? Non c'è un'assenza di stimolo della coscienza? Un'assenza di stimolo attraverso il senso del tragico della storia che abbiamo ricordato all'inizio, il mito di Prometeo, contemporaneamente un mito lacerante e creatore. Il mito di Edipo, che è il mito della colpevolezza: quand'anche lei non abbia commesso alcun errore o crede di non aver commesso alcun errore, lei è il colpevole della storia. Il poliziotto finisce con lo scoprire che è lui il colpevole. Questo è un mito fondatore straordinario alla base della civiltà occidentale. L'occidentale è un personaggio brutale, conquistatore, ma che possiede una forza cosmica. Nel film di Werner Herzog, Aguirre, la collera di Dio, si scopre questa specie di mercenario spagnolo, interpretato da Klaus Kinski, mentre sta conquistando un continente, e si ha l'impressione di essere di fronte ad un personaggio posseduto. E posseduto in un senso molto diverso dal talibano afghano, perché è proiettato verso il futuro piuttosto che arroccato al passato. Lei critica anche ciò che chiama idealizzazione, cioè una certa visione ideale della società islamica che è venuta fuori durante queste conversazioni. Si continua a dire allo stesso tempo che non può esserci disoccupazione nell'islam, dimenticando coscientemente che, ben inteso, la disoccupazione esiste sotto la forma di un sotto-impiego. Questi sono i diversi punti deboli che vedo dall'esterno, con tutta la simpatia ed il rispetto che devo a fratelli credenti e tutto il pentimento e la vergogna che provo per il comportamento di certi cristiani. C'è tra tutte le lacune che ho menzionato un punto che le sembrerebbe derivare da una sbagliata interpretazione dell'islam? T.R. L'argomento è interessante e devo dire che è la prima volta che mi si presentano le cose da questa angolatura. Diciamo due cose. La prima riguarda la condizione del Corano. Per il musulmano è un libro rivelato e non lo si può metter da parte. E' il riferimento, non una prigione. Una tradizione del Profeta ci insegna che ogni cento anni un riformatore verrà per rinnovare il modo di leggere che i musulmani hanno delle loro fonti scritte. Insomma, si tratta di un rinnovamento della comprensione. Il testo rimane con i suoi orientamenti generali ma l'intelligenza evolve, si forma, si adatta, in costante rapporto dialettico con l'ambiente. Il senso del sacro non è nell'immobilismo e la freddezza del cuore. Nell'islam è sacro tutto ciò che faccio col ricordo di Dio. Il sacro abita nel cuore e nella memoria e non imprigiona l'azione. Qui ancora, la nozione di sacro e profano è totalmente differente perché nell'islam la memoria è dappertutto ed il sacramento da nessuna parte. E' una religione del patto, non del sacro, del sacramento, della sacralità intangibile. Il secondo appunto riguarda ciò che lei ha detto sulla forza evocatrice dei miti e di quello che hanno permesso nell'elaborazione del pensiero occidentale. Ciò che lei dice è vero, ma a mio avviso incompleto. Certo, la colpevolezza forse ha permesso questo risveglio e questa forza della creatività e dell'iniziativa, fino alla trasgressione divenuta norma e al superamento di sé, come nell'ultima tappa della filosofia nicciana, ad esempio. Il cammello è diventato leone che è diventato bambino... innocente, autonomo, libero. L'immagine di Nietzche è bella, seducente: la libertà è totale e Dio è morto... L'Occidente senza parapetto Spingiamo il ragionamento fino in fondo e si vedrà, quasi naturalmente, sorgere la questione dei limiti. E' il problema che si pone oggi in modo cruciale l'Occidente: fin dove andare? Chi determina il senso ed il valore? L'immagine del bambino è di per sé significativa; certo è innocente e libero ma che cosa orienta la sua azione, chi dunque gli dà un senso o soltanto la padronanza? Alla fine, per la natura della sua innocenza, ci rivela un'incuranza molto pericolosa: il mondo diventa un semplice giocattolo del quale egli fa quel che vuole: lo ferma solo la catastrofe o la sua previsione. Il ritorno dell'etica con la bioetica per esempio, o l'ecologia sono nate da questo sentimento della catastrofe imminente. Il bambino sembra essere andato troppo lontano. Niente più riferimenti, niente più "radici", niente più tradizioni... e poiché per lungo tempo la responsabilità è stata vissuta come un sinonimo di colpevolezza, si è finiti col confondere l'innocenza con la deresponsabilizzazione, una sorta d'incuranza immatura. La trilogia nietzchana è ben più realista e vera che quella che ci propone Auguste Comte, con la speranza della nascita di un uomo nuovo, che domina l'oggetto scientifico. La tradizione musulmana è attaccata ad una referenza forte. Il testo rimane ed esige la maturità di saperlo leggere e capire. L'innocenza ammessa non può esistere senza responsabilità e se si vuole preservare la spensieratezza del bambino non possiamo, a causa di questo desiderio, sfuggire alle nostre responsabilità. Il testo coranico e le tradizioni ci richiamano all'orientamento, al limite, al rispetto intimo e spirituale della creazione: questa non può essere un giocattolo e non possiamo rimanere bambini responsabili della sua irresponsabile distruzione. L'Occidente vive oggi appieno il senso di questi interrogativi. Il problema del senso, dei valori e del limite è centrale; indubbiamente perché la storia di questa civiltà l'ha portata a rivendicare certe nozioni e certi stati dell'essere in opposizione all'autorità clericale e dogmatica. Ogni referenza, ogni radice, ogni tradizione è diventata sospetta; un possibile attentato alla mia totale libertà, un freno al progresso. Si arriverebbe allora ad una formula del tipo:"La referenza uccide la libertà". Non posso aderire al senso di questa formula che è quella che ci dà quotidianamente, in modo implicito od esplicito, la corrente ideologica dominante. L'immagine è seducente, certo, ma le sue conseguenze sono pericolose, quanto lo può essere un bambino... con un'arma, o piuttosto una bomba, tra le mani. J.N. Proprio così. E' sicuramente il deficit più grande dell'Occidente. Sono assolutamente d'accordo. T.R. Penso che le referenze alle quali continuano ad attaccarsi i musulmani li proteggano dall'errare quanto da un'innocenza immatura e irresponsabile. Certo se si è protetti dall'errare, si deve ammettere di essere frenati nel progresso, perché non è possibile avere tutto. I limiti esistono prima delle catastrofi: è un'ecologia che precede l'ecologia, un'ecologia nata da principi e non dallo shock delle catastrofi. Essa impone un modo diverso d'essere al mondo diverso, in ogni caso sempre lucido davanti alle proprie responsabilità nei confronti del Creatore e della propria coscienza. Il riferimento coranico è severo, questo è certo, impone un atteggiamento lucido e rigoroso ma si avrebbe torto se si credesse che esso è fisso e dogmatico. Al contrario, l'abbiamo detto, uno dei suoi strumenti è l'intelligenza umana dinamica, innovatrice, curiosa. Ma non deve perdere la memoria. Il senso della responsabilità spirituale e intellettuale che il riferimento esige da noi è un freno, ma anche una protezione. Ci protegge da noi stessi prima di tutto e dai nostri eccessi... ed ognuno di noi sa dove questi ultimi lo possono portare. J.N. E' un limite che si impone a se stessi. T.R. Sì. E' il vero senso dell'innocenza, della libertà e della responsabilità umanamente e dignitosamente assunte. J.N.Il che è inconcepibile per l'Occidente. In Occidente, essendo completamente scomparso il sacro, non c'è più alcun limite. T.R. E' effettivamente così che si presenta oggi l'Occidente, con il paradosso di essere costituito da milioni di individui avidi di senso e di dignità. J.N. Nei nostri laboratori si finirà col moltiplicare embrioni umani per fabbricare prodotti di bellezza recuperando cellule non differenziate, capaci di mascherare le rughe. Si comincerà con l'essere riluttanti e col chiamare alla riscossa tutti i comitati di etica. E si finirà per concludere: se c'è così tanto denaro da guadagnare accettando questo strappo ad una regola che non ha un vero fondamento nella trascendenza, non c'è nessun motivo per non farlo. T.R. Sì, si tratta proprio di sapere fin dove si può andare ed in nome di che cosa ci si dovrà fermare. La trascendenza, nel cuore della vita, dà una risposta ed indica dei limiti. Oltre a ciò: quando dico che il sacro ricopre la totalità della mia azione nel momento in cui mi ricordo di Dio, pongo un principio fondamentale; mai, davanti alla mia coscienza, il mondo sarà disincantato. Il ricordo della Presenza è dappertutto e la pura strumentalizzazione della creazione impossibile. La presenza del sacro è permanente ma in modo sempre molto dinamico ed impegnato: il sacro abita me ed il mondo se la mia memoria accompagna il minimo gesto della mia vita quotidiana, bere e mangiare, pensare ed amare. E' necessario ammettere, quando si pensa all'incontro di civiltà, che i riferimenti e le concezioni dell'uomo e della vita, come pure della creazione, non sono gli stessi. Tutto, del resto, non è riducibile alla sola ragione. A volte bisogna avere l'umiltà di riconoscerlo e dire: "Non capisco". Ciò non deve permettere di rinviare il pensiero altrui nelle categorie del "passato" o dell' "assurdo"... Significa ammettere che la concezione è diversa, che non si comprende tutto ma che si rispetta il punto di vista altrui così come vengono rispettati i diritti fondamentali. Dopo tutto, il vero problema è sapere che cosa si vuole veramente. Alcuni criticano il sistema e lo confermano ogni giorno con gli eccessi del modo di vivere che conducono. Criticano l'individualismo e vivono essi stessi traendo vantaggio da tutto ciò che questo individualismo permette loro. Criticano la follia del mondo, gli eccessi del progresso, della tecnologia e della scienza, mentre il loro appetito consumista è l'espressione meglio affermata di una follia ignorata. Non si può volere per sé la libertà totale e senza limiti ed aspettarsi la giustizia dal mondo... Un versetto del Corano ci orienta: Dio non cambia ciò che è in un popolo, prima che le persone (che costituiscono il popolo) non cambiano ciò che è in loro stessi. Che cosa si vuole esattamente? Una semplice dichiarazione d'intenti che, apparentemente, ci scagiona dagli eccessi, o una vera interrogazione, un dibattito sul fondo, che deve portare ognuno di noi a rivisitare il suo comportamento? E' questo il tipo di incontro di cui abbiamo bisogno, sia a livello individuale che dei sistemi sociali e politici. J.N. Significa forzare il grande dibattito. Un dibattito politico in Occidente. Per superare la diatriba famigliare Vorrei concludere confidando in questo: il mio sogno è che un giorno tutti i figli di Abramo si ritrovino, ad esempio a Gerusalemme, poiché Gerusalemme ha un significato per tutti loro. E' un sogno che custodisco. Ad un certo momento si concluderà davvero la pace tra le religioni. Ed in quel momento si avrà la pace tra i popoli se i politici accettano di entrare nelle questioni fondamentali di cui abbiamo discusso. Essi tendono troppo a leggere la storia presente come una successione di complotti terroristici contro i quali solo l'azione della polizia è efficace. La difficoltà deriva dal fatto che tutti i figli d'Abramo fanno parte della stessa famiglia. Si possono intrattenere relazioni di simpatia ma distanti con i buddisti. In fondo, questo non ci interessa molto, perché non ci impegna in nulla. Ma qui abbiamo a che fare con una diatriba familiare. E si sa bene che le diatribe familiari sono interminabili: ciascuno sente di condividere alcuni valori con gli altri; ciò che l'altro ha e che lui non ha rappresenta ciò che ha perduto del messaggio iniziale. L'altro, che è il più vicino, il prossimo nel senso cristiano del termine, gli sta rivolgendo uno straordinario rimprovero per il solo fatto della sua esistenza. L'apporto più grande che deriva dal contatto tra le due civiltà, è che ciascuna, vedendosi con gli occhi degli altri, scopra di essere infedele a Dio. Ognuno è per definizione sempre fedele o infedele a Dio. Ma mai sempre nello stesso modo! Io considero solo la mia fedeltà, ma scopro la mia infedeltà nella fedeltà del prossimo. Egli diventa letteralmente odioso, mentre dovrebbe essermi così caro quanto un messaggero divino. T.R. L'altro mi insegna a mettere in discussione il mio cammino, in effetti. E bisogna, certo, avere la preoccupazione di guardarsi in faccia. Non è facile a dirsi: bisogna che la tua presenza metta in discussione il mio cammino, col rischio di scoprire delle infedeltà. Ma l'incontro si posa su questa esigenza. Un giorno avevo invitato Pierre Dufresne ad un colloquio organizzato da noi. Era già molto malato ma era venuto in nome della nostra amicizia. Aveva detto allora questa semplice formula, della quale ho già parlato ma di cui ogni giorno comprendo meglio e più profondamente il significato: non bisogna sbagliare nemico. Quante musulmane e musulmani si sbagliano oggi considerando i fedeli delle altre tradizioni, ebraica, cristiana e più ampiamente umana, come veri nemici con i quali non si deve transigere? Quanti laici, cristiani ed ebrei si sbagliano vedendo i musulmani come la nuova minaccia che rischia di invadere il loro mondo e di spargere sangue? Si sbaglia nemico, nel senso vero e proprio del termine; tutte queste tradizioni, laiche e religiose, portano valori comuni fondati sulla costante preoccupazione della coscienza e della dignità umane. Ciò che le lega è molto più importante di ciò che le separa... Non ci dovremmo impegnare insieme a partire da quello che ci unisce e "rivaleggiare nell'applicazione del bene", secondo una formula coranica, in ciò che ci distingue? In fondo, a rifletterci bene, i concetti di "civiltà islamica" e di "civiltà occidentale" sono un pò caricaturali e possono essere utilizzati, l'abbiamo visto in questi ultimi tempi, nel registro del confronto. I figli di Abramo sono perciò in queste due civiltà, e i ponti e le intersezioni sono molteplici e permanenti. Chi dunque si presenta come nemico della tradizione abramica: l'ebreo? il cristiano? il musulmano? Il laico? Certo che no, è piuttosto questo nuovo culto del produttivismo cieco, dell'individualismo accanito, del progresso disumano, selvaggio, senza meta. Bisogna resistere insieme al regno del non-senso e dell'incoscienza. Gli esseri di fede e di coscienza sono giustamente chiamati alla loro responsabilità: essa è comune. Insieme devono testimoniare la loro determinazione a resistere al non-senso, alla morte della spiritualità, alle fratture dell'educazione, nel cuore delle nostre società... Questa testimonianza dovrà riunire nella grande famiglia, per utilizzare i suoi termini, esseri di fede e di coscienza, credenti e laici. Il dialogo è e resterà difficile all'interno della famiglia di Abramo e con i laici: i veri dialoghi ed i dibattiti fondamentali non sono mai facili se sono sinceri. Credo pertanto che dovremmo prendere coscienza non solo delle divergenze che esistono tra noi, intorno al tavolo, ma in senso più ampio delle pressioni che sono all'esterno della casa e che la mettono in pericolo. |
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Jacques Neirynck e Tariq Ramadan: Possiamo vivere con l'Islam?
Prima edizione italiana ottobre 2000 / shaban 1421 © Edizioni " Al Hikma" 2000 per la traduzione italiana Ed. “Al Hikma” C.P. 653, 18100 Imperia Tel. 0183.767601, fax 0183.764735 e-mail: alhikma@uno.it Titolo originale dell’opera " Peut-on vivre avec l’ Islam" © Édition FAVRE SA 1999 Lausanne, Suisse Il libro può anche essere acquistato a vantaggiose condizioni sul sito: www.libreriaislamica.it |
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